
Lettere al direttore
Dalla, Battisti, Costanzo e don Barbetta. E ancora sull’unità in politica

Caro direttore, viste alcune lettere che ti sono state inviate sul tema dell’unità in politica mi domando: perché non dovrebbe essere desiderabile, non un dogma, ma una aspirazione? È forse un valore la dispersione? La disunità? L’unità è qualcosa che viene prima che diventa movimento cioè genera e costruisce. Abbiamo ancora da proporre a questo mondo triste? Abbiamo ancora qualcosa da difendere per il bene di tutti? Ognuno nel suo ambito di vita, quindi anche in politica. Certo è più difficile confrontarsi e cercare una strada comune. Ma di cosa abbiamo paura?
Domenico Calogera
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Il disporsi a commemorare e a celebrare la memoria di personaggi famosi rasenta molto spesso la tediosità retorica, ma in particolare la celebrazione a cui ci stiamo approssimando, ha “un che” di raro… anzi unico!
In questi giorni si celebrano gli 80 anni (cifra tonda!) dalla nascita di Lucio Battisti e Lucio Dalla, due autori cantanti, artisti entrati a pieno merito nell’immaginario collettivo della cultura pop italica.
Tutti e due nati a poche ore uno dall’altro: Dalla esattamente il 4 Marzo 1943, Battisti poche ore dopo (era già il 5). Tutti e due con lo stesso nome di battesimo, Lucio, e tutti e due destinati ad una celebrità che attraversa e oltrepassa le generazioni, non solo dei fans, ma di tutta la comunità nazionale, fino a diventare vere icone del panorama musicale, pietre angolari per quanto riguarda il cantautorato italiano, quello nato dalla stagione del “beat” della metà degli anni ’60.
Dovendo trovare un motivo per cui dare un senso alla lettura di questo articolo (sarà l’ennesimo in questi giorni) e immaginandovi travolti da programmi televisivi realizzati ad hoc e non volendo gareggiare con ben più competenti e professionali reportage sulla storia artistica e umana dei due commemorati, vorrei semplicemente rendere partecipi gli eventuali lettori di queste povere righe di quello che Dalla e Battisti hanno rappresentato per me e per migliaia (milioni?) di più o meno giovani, le uscite periodicamente assidue (specialmente nella decade mitica degli anni ’70) delle loro novità discografiche. Insomma, raccontare attraverso la loro produzione musicale, chi eravamo noi “baby boomer”, nativi “analogici” degli anni ’70.
Per noi, quelle “canzonette” erano la quotidianità, in qualche maniera una espressione vitale, il comunicare tra di noi e la generazione dei più grandi.
Aspettavamo l’uscita del disco nuovo con ansia e curiosità, l’epifania, il “rivelarsi” della novità, spesso con cadenza annuale (in alcuni casi addirittura semestrale!) e l’ascolto del 45 giri che doveva tirare fino alle alte vette dell’Hit parade radiofonica anticipava la pubblicazione del più “adulto” padellone, il 33 giri, il long playing, che senza indugio correvamo a comprare nel nostro negozio di dischi di fiducia (oggi sono praticamente scomparsi), cogliendo l’occasione per parlare di musica con il titolare dietro il bancone. Si tornava a casa trafelati, scartato il cellophane che avvolgeva la copertina (spesso dei veri e propri capolavori fotografici e pittorici) e dopo aver delicatamente pulito la superfice del vinile con l’apposito panno, adagiarlo sul piatto del giradischi e ascoltare note e parole in religioso silenzio, magari divorando i testi sulle buste, se erano a disposizione.
Quante volte questo rituale si è ripetuto con i dischi dei due Lucio!
Permettetemi un piccolo ricordo personale: con quale emozione ho fatto ascoltare le loro canzoni appena uscite dai microfoni della radio libera. Erano i tempi di “Banana Republic”, de “L’anno che verrà”, di “Una donna per amico”, erano i tempi della modulazione di frequenza 102,7 di quella storica radio (che magari i lettori più “antichi” di Tempi ricorderanno) che era “Radio SuperMilano”.
Quelle canzoni erano squarci di sole musicali in un’Italia alle prese col tormentato nuovo mondo del lavoro, con il terrorismo di piombo, con i moti studenteschi, con un mondo che usciva dal formalismo borghese per approdare a sconosciuti lidi di nuova socialità. Anche se non erano sovrapponibili alle produzioni del cantautorato considerate (a ragione o torto), militanti, più direttamente “politiche”, Battisti (con le parole di Mogol) e Dalla (dopo la parentesi ermetica di Roversi) hanno sondato le vicende dell’umana avventura.
“Futura”, “L’anno che verrà”, “Henna”, l’angelo impertinente di Dalla sono intrise di una visione religiosa, cattolica, eddai!; “Il nostro caro angelo” battistiano era il manifesto utopico – libertario di Lucio, mentre “Anche per te”, l’appropriarsi di un brano non suo “La compagnia”, la seminale “La folle corsa” (ascoltatelo in rete nel suo provino) svelano il lato più profondamente umano della sintesi poetica di Mogol, sempre al servizio del genio musicale del suo compagno d’arte.
Insomma, quelle canzoni facevano parte di “una storia”, ecco, forse è questa, la chiave per comprendere il senso della celebrazione.
I due Lucio erano se stessi, non usavano stratagemmi insulsi per far parlare di sé: Battisti con Mogol attraversarono a cavallo mezza Italia, ecologisti ante litteram; Dalla, ogni notte di capodanno, organizzava a Bologna, nei pressi di San Petronio, la cena per i senza tetto.
Una umanità perduta? A vedere ostentate e insulse provocazioni sui palcoscenici odierni televisivi, parrebbe proprio di sì.
E qui, mi fermo. La mia voleva essere soltanto una piccola testimonianza, forse “confezionata” in una immotivata nostalgia, da un esasperato passatismo piuttosto inattuale, non lo so…
Quello che è certo, è che le canzoni di Dalla e Battisti faranno parte per sempre della nostra memoria, riposte comodamente in un angolo del nostro cuore. Del cuore di tutti.
Mi sorprenderei, se davanti a questo dato di fatto, arrivassero smentite.
Carlo Candiani
Curatore del blog www.lastanzadielvis.blogspot.com
Grazie Carlo. Segnalo solo lo splendido ritratto che Mattia Feltri scrisse per Tempi su Lucio Battisti.
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Ho letto l’articolo di Davide Rondoni sul vostro giornale e sono d’ accordo in tutto e per tutto su quanto ha scritto di Maurizio Costanzo. Io penso che quest’uomo sia già lì seduto vicino a Cristo con intorno il coro degli angeli. È vero, non si deve per forza trovare un aspetto negativo nella personalità di Costanzo perché si sa, quando uno muore, anche il più infame degli uomini diventa un santo, ma dedicargli una “Ola” così marcata mi è sembrato troppo. Perché, diciamolo tutta, l’hanno ringraziato in tanti: attori, cantanti, musicisti, presentatori, funamboli, ma io personalmente non ho sentito alcuna persona del “popolo” fargli un elogio, al massimo è stato ringraziato semplicemente per la piacevolezza delle sue trasmissioni. Ma questo, vorrei dire, è da contratto. Ora si sa, quando sei Costanzo non puoi assecondare tutti, ma non gli ho mai visto dimostrare grande trasporto verso persone diciamo normali che invitava sul suo palco. Certamente quando ricevi un aiutino lavorativo da parte di qualcuno che ha grande influenza, lo ringrazi a vita, lo fai diventare tuo padre come hanno riferito molti degli intervistati durante il funerale. Si è detto che fosse uomo di grande cultura e intelligenza, nulla da eccepire, apprezzava la moglie, il suo braccio destro, e la riteneva donna di grande intelligenza e cultura. Non sono certo io la persona che deve misurare l’intelligenza e la cultura degli altri, ma definire intelligenti programmi come “Uomini e Donne, “C’è posta per te” e veramente un insulto. Certo, se ti ti piace un programma non lo guardi, ma intanto lo squallore, l’ipocrisia e direi esplicitamente la presa per il… si espandono, dilagano, a pioggia. Ed è così che si forma una società come la nostra, impoverita, manovrata dai social pronta a scendere in piazza per difendere i Ferragnez, ma non per difendere un’insegnante derisa e impallinata dagli studenti.
Mirella Rigamonti
Gentile Mirella, lei ci porta su sentieri che noi non vorremmo percorrere, dato che non conoscevamo il Maurizio Costanzo privato, ma solo l’uomo pubblico, e su quello diamo il nostro giudizio (voglio dire: non abbiamo elementi per sindacare sulla sincerità del tributo che tanti gli hanno dedicato né sappiamo come egli si comportasse con le persone non celebri).
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Don Marco Barbetta. La sua morte, avvenuta il 17 marzo 2020, dopo lunghe sofferenze, ebbe a colpire molte persone, sia entro la comunità di Cl e di Ac, sia tra coloro che ebbero ad incontrarlo durante gli anni di scuola e di università e nei rapporti durante i molteplici incontri nella parrocchia San Pio X in cui pose il suo servizio sacerdotale.
Egli seppe suscitare criticamente quelle esigenze educative e formative, ponendo attenzione alle persone nella concretezza delle varie situazioni, aiutando a capire le derive culturali ed esistenziali che ciascuno – pur con diverse età e con diverse prospettive – e a porsi come protagonisti nella crescita e nel percorso umano di ognuno.
Egli fu attento ai bisogni dei giovani, aprendo loro il cuore alla speranza, aiutandoli nel loro cammino verso la ripresa della coscienza di sé stessi, la sconfitta dei disagi e delle insicurezze, risvegliando in loro il coraggio delle decisioni definitive, a maturare la capacità di vedere, giudicare e affrontare la realtà, anche se spesso di una realtà difficile e sconvolgente.
Don Marco era dotato di uno sguardo scanzonato sulla realtà, illuminato dalla fede, che lo faceva talvolta sperare contro ogni speranza.
Fu, don Marco, prezioso confidente ed amico dei genitori, infondendo loro un profondo spirito di appartenenza alla dimensione cristiana e un rinnovato significato al loro impegno educativo, e un grande aiuto circa i compiti delle famiglie in ordine alla formazione scolastica.
E in quest’ottica, fu preziosa presenza e sostegno nel rapporto con gli insegnanti. Con essi mise in rapporto la sua grande esperienza di insegnante in diversi licei diocesani, seppe dedicare aiuto agli adulti e molta attenzione e dedizione all’impegno di accompagnamento e di rapporto con i molti giovani che ebbe ad incontrare nelle scuole cattoliche, donando loro il frutto della sua esperienza di vita e della sua conoscenza dell’animo giovanile.
Egli fu un testimone della Fede, che seppe trasferire nelle anime delle persone che incontrava. In tal senso significativa la sua risposta ad una domanda fattagli circa il suo essere prete. Il suo essere sacerdote della Chiesa Ambrosiana lo spiegò affermando, per una missione evangelizzatrice, la necessità di una relazionalità, come fatto comunitario necessario inteso come modalità di educazione e come aiuto a vivere l’esperienza cristiana.
“Il motivo ultimo è il rapporto con le persone: più precisamente della adeguatezza delle continue tensioni che caratterizzano questa esperienza. Essere per gli altri, non si realizza mai a sufficienza: un di più ci interpella continuamente e ci fa dire che noi non bastiamo. La sensazione di essere da soli, dei diversi, della gente con un vuoto terribile dentro la vita da riempire con “gli altri”, e una sensazione che resta anche nelle attività più frenetiche, nella dedizione più appassionata, nl rapporto più intenso ed approfondito, e che finisce per chiamare ad Altro. Tutto ciò si realizza pienamente per la presenza di Cristo nella Chiesa, come luogo della comunione più radicale tra gli uomini; dedicarsi o talmente a questo sembra possa trovare realizzazione nel fare il sacerdote. Eccomi qui!”. (Risposta pubblicata tempo fa su Tempi).
Il vero stile educativo di don Marco Barbetta, era infatti che “ognuno facesse un lavoro di verifica personale, senza lasciarsi ingabbiare da situazioni e da un associazionismo schematico – qualunque esso sia – fatto a volte di prassi non verificate e giudicate”. Don Marco fu una guida sicura che mai si sostituiva alle personali scelte di ognuno e della sua responsabilità, ma aiutava a fare luce sui criteri da seguire, nelle varie situazioni, per capire la volontà di Dio. Tutto ciò resta memoria indelebile in quanti l’hanno conosciuto.
Giancarlo Tettamanti
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