
Dal libro della giungla,morte di una tigre
Ogni nazione e ogni era hanno i loro simboli e i loro monumenti. Quello della Serbia di questi tempi è una desolata collina che domina Belgrado. La chiamano il cimitero dei gangster. Qui riposano, uno accanto all’altro, le vittime, poco innocenti, della guerra silenziosa e inarrestabile che attraversa questo ghetto dell’Europa. Cinquecento morti “sparati” in pochi anni. L’ultimo aveva un nome famoso. Zeljko Raznatovic detto Arkan. Sui retroscena della sua morte si sono costruite nelle scorse settimane innumerevoli risposte. Eliminato, su mandato del presidente Slobodan Milosevic, per impedirgli di rivelare al tribunale dell’Aja le tremende verità della pulizia etnica in Croazia e Bosnia. Fatto fuori dal figlio del presidente, Marko Milosevic, per sottrargli gli affari legati al contrabbando di petrolio. Assassinato dai clan malavitosi legati alle altre squadre di calcio, stufi delle “combine” con cui Arkan faceva trionfare l’Obilic, il club da lui fondato e diretto. “Giustiziato” da sicari albanesi per vendicare i kosovari sterminati dalle “Tigri”, la formazione paramilitare di cui Raznatovic era il signore indiscusso. Ipotesi verosimili, ma anche inverificabili.
Grande Serbia e grandi affari (sporchi) L’unica certezza è che la vita, la storia e la fine di Arkan sono l’espressione autentica della nazione in cui viveva. Una nazione che, tra l’inizio degli anni Novanta e oggi, si è progressivamente allontanata dalla comunità delle nazioni civili trasformandosi nella gangsteropoli dei Balcani. Nel ’91, quando con la secessione di Croazia e Slovenia, la Jugoslavia inizia a disintegrarsi Zeljko Raztnatovic sta scontando una condanna per rapine e furti in un carcere di Zagabria. Per ottenerne la liberazione Belgrado, secondo quanto ha rivelato di recente l’ex ministro degli Interni croato Josip Boljkovac, paga al governo di Franjo Tudjman un salvacondotto di un milione di marchi. Da quel momento la storia della nazione serba e quella della vita di Arkan di fatto coincidono. Arkan è l’esecutore sui campi di battaglia di Croazia, Bosnia e Kosovo di quella pulizia etnica, teorizzata a Belgrado come arma per la nascita della Grande Serbia. Sul piano economico Arkan è invece l’imprenditore e il manager dell’economia criminale utilizzata per aggirare l’embargo economico imposto dall’Occidente. Per le mani di Zeljko Raznatovic passano i traffici di petrolio necessari a far funzionare le industrie di stato. Negli uffici che sovrastano la sua pasticceria, nell’esclusivo quartiere intorno allo stadio di Belgrado, si trattano gli acquisti delle partite di armi e munizioni necessarie per sostenere lo sforzo bellico. Arkan, con il suo curriculum criminale, rappresenta per molti anni l’anima nera di Slobodan Milosevic e di tutto l’establishment politico serbo. L’uomo a cui addebitare tutti gli affari sporchi della Serbia. Come ricompensa per la sua fedeltà Arkan può spadroneggiare anche in tutti gli altri settori dell’illecito: dal traffico di droga a quello della prostituzione. Qualcuno obbietta che quella della Serbia è una strada obbligata. Assediata dalle sanzioni, isolata, depauperata, orfana dei suoi sogni di potenza, la Serbia, affermano i suoi difensori, imbocca una strada quasi obbligata. Una strada senza ritorno dopo l’umiliazione impostale dalla Nato in Kosovo. In verità la matrice, il male oscuro della Serbia è ben più radicato. L’Occidente ha senza dubbio scelto, senza troppi scrupoli, di umiliare, affamare e impoverire milioni di serbi pur di liberarsi (senza per ora riuscirci) di Milosevic, ma questa è solo la conseguenza del male oscuro di Belgrado.
La spia venuta dal carcere Un male oscuro che in questo gioco di vite parallele si specchia ancora nella vicenda personale di Arkan. Zeljko Raznatovic è innanzitutto il figlio di quell’aristocrazia militare serbo-comunista che ai tempi del socialismo di Tito controlla le forze armate jugoslave. Nato nel 1950 in Slovenia ove il padre, ex partigiano e alto ufficiale, comanda un’unità dell’aviazione Arkan è il classico rampollo bruciato. Alla fine degli anni Sessanta la sua fedina penale è già una lunga lista nera. La sua vita, se non fosse per le influenti amicizie del padre, sarebbe destinata ad esaurirsi dietro le sbarre di una prigione di stato. Invece Zeljko viene mandato all’estero con in tasca una tessera dei servizi segreti jugoslavi. La sua attività di rapinatore internazionale di banche, in cui è maestro indiscusso, viene riscattata con la partecipazione all’eliminazione dei dissidenti anti-comunisti jugoslavi in mezza Europa. Qui germogliano, indistricabilmente connessi, i destini di Arkan e della Serbia. L’uomo criminale e la nazione reietta sono entrambi gli eredi di un regime comunista che, come in Unione Sovietica, esporta attività criminali e attentati politici sulla scena internazionale. Una storia simile se non uguale a quella dell’Unione sovietica. La disintegrazione dell’Urss innesca la trasformazione di molti settori del Kgb in associazioni deliquenziali e la nascita di una nazione russa con larghi settori dell’economia nelle mani della mafia.
Una repubblica fondata sul crimine La disintegrazione della Jugoslavia ci regala invece la gangsteropoli serba e le scorribande balcaniche di Arkan. Arkan come dicevamo è però solo la punta dell’iceberg, il nome più famoso fra quei cinquecento assassini irrisolti che caratterizzano la vita di ogni giorno di questa repubblica balcanica. Una repubblica dove nonostante l’embargo sul petrolio le automobili continuano a ingolfare il centro di Belgrado, dove, nonostante il cinquanta per cento della popolazione risulti disoccupata e l’altra metà non veda da mesi i propri salari, la folla continua ad affollare bar e ristoranti. Una nazione dove gli omicidi spettacolari sono diventati una rappresentazione usuale e consueta. Tra i più famosi a cadere sotto i colpi di misteriosi killer vi sono Predrag Ikac, magnate del gioco d’azzardo, e il suo concorrente Zoran Koca Kovacevic titolare di numerosi casinò in tutta la Serbia. La stessa fine l’hanno fatta Dragan Ugar Ugarkovic, un ex membro della legione straniera convertitosi all’illegalità militante, e Zoran Sijan reuccio della mafia belgradese. La maggior parte di queste e altre eliminazioni sono state portate a termine in pieno giorno. In molti casi gli omicidi servono come avviso agli amici e ai complici ancora in vita. Ma la cosa più sorprendente, per un osservatore disincantato, è come questi omicidi colpiscano indiscriminatamente pubblici briganti e, apparentemente stimati, esponenti delle forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza. L’8 luglio scorso è caduto, crivellato di proiettili davanti a casa, Dragan Simic, capo della polizia di un distretto di Belgrado. L’11 marzo una raffica di mitraglietta aveva messo fine all’attività di Dragan Vlahovic, vice comandante delle unità investigative presso il quartier generale della polizia di Belgrado. Nell’aprile del 1997 un gruppo di misteriosi killer aveva eliminato Radovan Badza Stojcic, capo dei servizi segreti serbi, sorpreso da una pioggia di piombo all’entrata del caffe “Mamma Mia” di Belgrado.
Caccia alla Tigre Un cronista belgradese ha fatto notare come “il numero dei poliziotti assassinati sia stranamente proporzionale a quello dei delinquenti eliminati”. In verità le stranezze sono assai poche. La polizia rappresenta l’apparato di potere più forte nelle mani di Milosevic. Il presidente serbo, che non si è mai fidato dei propri generali usciti dalle accademie della Jugoslavia federale, ha puntato negli ultimi anni a guadagnarsi il favore della polizia. Armata e dotata di mezzi che la rendono a tutti gli effetti un vero e proprio esercito, la polizia è stata trasformata nel corpo pretoriano della presidenza serba. Ma la fedeltà dei pretoriani va pagata. Per garantirsene la fedeltà Milosevic ha distribuito tra i propri fedeli la gestione delle attività criminali. In questa identificazione tra apparati di sicurezza e regia dei traffici illeciti va letto forse il segreto della morte di Arkan. Abituato ad essere l’anima nera della nazione il signore delle “Tigri” non si è accorto che intorno a lui era cresciuto un apparato di regime che non aveva più bisogno di coperture per perseguire quei crimini un tempo inconfessabili. L’indispensabile Zeljko Raznatovic era diventato soltanto un inutile e ingombrante concorrente. E la sua anima nera è diventata un’anima morta.
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