«Cuba merita pace e libertà». Il duro appello della Chiesa al regime

Di Paolo Manzo
14 Novembre 2021
Due interventi ravvicinati della Chiesa cattolica chiedono di non reprimere la manifestazione prevista per lunedì 15 e di coinvolgere tutti i cubani in un «progetto nazionale»
Una stazione di polizia a Cuba, dove in questi giorni stanno interrogando diverse persone per scoraggiare la manifestazione di lunedì 15 (foto Ansa)

Non c’è istituzione indipendente che conosca meglio della Chiesa cattolica dell’Avana il polso della società cubana, vuoi per la grande fede del “pueblo” nella Vergine della Carità del Cobre, vuoi perché ha convissuto per oltre 62 anni con un regime comunista come quello castrista, un’impresa titanica.

I timori per la manifestazione di lunedì 15

Partendo da questa premessa fanno molto riflettere due interventi proprio della Chiesa cattolica nelle ultime ore. Il primo è una lettera aperta rivolta alle forze repressive del regime resa nota il 10 novembre scorso da 15 preti cubani, molto amati dai fedeli ed assai apprezzati sull’isola. Il secondo, giovedì, è un inedito (e significativo) comunicato della Conferenza episcopale cubana in cui i vescovi chiedono «i cambiamenti necessari tanto a lungo desiderati».

La lettera aperta ha toni più diretti, il comunicato è più diplomatico ma, pur così, assai chiaro nella sua sintesi. Soprattutto, entrambe le esternazioni arrivano proprio alla vigilia della grande manifestazione di lunedì 15 novembre, una marcia vietata dalla dittatura ma che si terrà comunque e, proprio per questo, dai risvolti imprevedibili. Già, perché se da un lato il regime ha reagito alle manifestazioni dello scorso 11 luglio con una repressione senza precedenti dagli anni Sessanta, con migliaia di carcerazioni, condanne basate sul nulla sino a 30 anni e, al momento, oltre 680 prigionieri politici (che con una popolazione di 10 milioni è un’enormità, come se in Italia ci fossero 7mila prigionieri politici), dall’altro i cubani sono sempre più esasperati e hanno perso la paura di esprimersi contro un presidente, Miguel Díaz-Canel che quasi tutti i giovani ormai insultano con l’espressione “singao” (irripetibile e non traducibile).

«Vogliamo una Cuba con giustizia, libertà e pace»

Questo la Chiesa cattolica lo sa molto bene, soprattutto i preti che si mischiano ogni giorno con il loro gregge, sempre più smunto perché non ha di che mangiare e arrabbiato. Quello dei 15 sacerdoti cattolici cubani è un appello senza precedenti alle forze repressive del regime a non reprimere il popolo nelle proteste di lunedì prossimo. «Quelli di noi che hanno firmato questa lettera sono cubani e vogliamo il bene del nostro Paese, vogliamo una Cuba dove regnino giustizia, libertà e pace», si legge nella missiva.

«L’11 luglio migliaia di cubani sono scesi in piazza con un grido che per tanti anni è stato un grido soffocato: libertà di pensiero, libertà di esprimersi senza essere repressi, per una pluralità politica, per essere protagonisti dei destini della nostra terra… Molti di loro sono stati picchiati, detenuti, denigrati, giudicati e duramente condannati senza aver fatto nulla di male», hanno aggiunto i preti nella lettera.

«In questo momento il governo sta facendo l’impossibile affinché la popolazione desista dalla manifestazione pacifica del 15 novembre […] C’è un appello massiccio allo scontro violento (fatto dallo stesso Díaz-Canel, ndr) […] Non vogliamo la violenza, rifiutiamo l’ordine di combattimento, i bastoni consegnati nei centri di lavoro, la chiamata agli esercizi di difesa. Nessun cubano dovrebbe alzare la mano contro un suo connazionale per il semplice fatto di pensarla diversamente; tanto meno le forze dell’ordine che per vocazione hanno il dovere di dare l’esempio di civiltà», sottolineano i sacerdoti nella loro lettera aperta.

«Non colpire i manifestanti, poliziotto, perché sia loro che tu vivete in mezzo a tanta scarsità e miseria. Non arrestare nessun cubano per aver sentito nel suo cuore di avere il diritto di vivere in una Cuba di tutti. Questa marcia è per loro e per te», sottolineano i coraggiosissimi preti di fronte alla crescente ondata di repressione, al clima di terrore e alle continue minacce del regime che la popolazione sull’isola sta vivendo in queste ore sulla propria pelle, poco prima della manifestazione di lunedì prossimo.

La libertà di parola che manca

«Nelle ultime settimane abbiamo assistito, tra di noi, all’aumento di un clima di tensione e di scontro che non è salutare e non giova a nessuno». Inizia invece così il messaggio della Conferenza episcopale cubana. «Per questo vogliamo fraternamente condividere con voi alcune considerazioni che scaturiscono dal nostro cuore di cubani e pastori del Popolo di Dio: ogni persona merita stima e riconoscimento della sua dignità, per la sua condizione di essere umano e figlio di Dio, di essere cittadino libero, soggetto di diritti e di doveri. Di conseguenza, ogni cubano dovrebbe poter esprimere e condividere liberamente e con rispetto le proprie opinioni personali, i propri pensieri o le proprie convinzioni, anche quando differiscono dalla maggioranza».

Primo punto, dunque, la libertà di parola, oggi negata a Cuba. «Qualsiasi atto di violenza tra di noi, fisico, verbale o psicologico», continuano i vescovi cubani, «ferisce gravemente l’anima della nazione cubana e contribuisce ancor di più al dolore, alla sofferenza e alla tristezza delle nostre famiglie. Un’anima ferita non è in condizione di costruire un futuro di speranza. La violenza contraddice la volontà di Dio, poiché Cristo ha assicurato: “Beati coloro che lavorano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt. 5,9)». Il ripudio della violenza come politica di Stato.

L’appello dei vescovi

Infine l’appello vero e proprio, con lo sguardo rivolto al prossimo futuro: «Riteniamo sempre più urgente il coinvolgimento dei cubani in un progetto nazionale che coinvolga e motivi tutti; che tenga conto delle differenze, senza esclusioni o marginalizzazioni. Crediamo che sia necessario mettere in atto meccanismi in cui, senza timore di intimidazioni e rappresaglie, tutti possano essere ascoltati e l’insoddisfazione sia incanalata di fronte alle dure realtà quotidiane che travolgono tanti, soprattutto i più poveri e vulnerabili».

E poi la chiusura, che non lascia spazio a dubbi: «È fondamentale attuare i necessari cambiamenti, tanto desiderati, che favoriscano una vita dignitosa e felice per tutti i bambini, qui, in questa nostra terra. Quanto sarebbero grate tante famiglie cubane e la stessa Chiesa, e quanto diminuirebbero le tensioni sociali, se ci fosse un gesto di indulgenza per coloro che sono ancora trattenuti dagli eventi della scorsa estate!». Un appello al regime, insomma, a liberare i 680 prigionieri politici, la stragrande maggioranza finiti in carcere proprio dopo l’11 luglio scorso, solo per essere scesi in strada a gridare «libertà!».

Vedremo quanti cubani saranno in strada a protestare il 15 novembre e se il regime sarà disposto ad ascoltarli. E ad ascoltare l’appello dei vescovi e dei preti di Cuba, da sempre in prima linea contro la più antica dittatura delle Americhe.

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