
Terra di nessuno
Un Cristo crocifisso eppure luminoso in mezzo alla peste di Palermo
Palermo, luglio. Il cinquecentesco Palazzo Alliata di Villafranca, nel cuore del quartiere popolare dell’Albergheria, sulla facciata mostra i segni profondi del tempo, sovrapposti a quelli di un’antica nobiltà. Sullo stemma gentilizio i secoli e la polvere e la pioggia e il sole si sono come incrostati; e ora quel portone pare gravato dal peso di una storia lenta, e densa, dal caldo afoso di quattrocento torride estati.
Oltre l’atrio buio e fresco, un’ampia scala di marmo conduce all’appartamento dei principi Alliata. Qui e là le stanze si aprono sulla luce abbagliante dei cortili squarciati dal sole. Ma dentro, penombra e silenzio, nelle grandi sale in cui i passi dei rari visitatori risuonano. Il Barocco sfolgora nell’oro delle porte, i cristalli dei grandi lampadari di Murano splendono: e ti immagini quando reggevano mille candele, tremanti nell’alito di uno scirocco lieve e molle.
Volti austeri di principi e principesse ti guardano da scuri ritratti alle pareti, e la città di fuori scompare fra i velluti, fra gli antichi specchi che il tempo – o forse troppe cose viste, e riflesse? – ha reso opachi. In queste stanze ti pare d’essere dentro il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e di avvertire ancora il fruscio di pizzi e gonne lunghe, e di conciliaboli fra nobili pensierosi, all’alba del Risorgimento, sul futuro del Regno.
Ma il cuore di palazzo Alliata di Villafranca è oltre, nell’ultima stanza. È un Crocefisso di Van Dyck, commissionato dai principi nel 1624, nel pieno della peste a Palermo. I documenti dell’epoca descrivono un evo lugubre, coi topi sbarcati da un vascello che, sordidi, diffondono il morbo per i vicoli.
Van Dyck, che aveva appena 25 anni, ritrasse il principe Emanuele Filiberto di Savoia appena prima che morisse di peste. Vide l’allargarsi orrendo del contagio e della morte nella città. Gli esperti affermano che le pennellate del Crocefisso di Palazzo Alliata sono tratti veloci – come dati nella paura, o nell’ansia di partire da quella città di morte. Eppure nella peste e nel disfacimento e nel lezzo Van Dyck dipinge un Cristo luminoso, chiarissimo; morente in croce, eppure radioso come già risorto.
Già il busto si torce nell’attimo del trapasso, anelando il cielo. La mano sinistra, conficcata al legno, è stretta in un pugno che parrebbe quello di un operaio marxista, se non fosse stato dipinto tre secoli prima. Ma è un pugno di sofferenza, di dolore, di rabbia, quello del Cristo di Van Dyck: già prossimo all’abbraccio del Padre, eppure così conscio dell’umano dolore. Come può esserlo un ragazzo di 25 anni che sia stato testimone della peste a Palermo.
Gli occhi, però, di Cristo, nel morire guardano verso terra. Nell’attimo del ritorno a Dio sono fissi ancora, misericordiosi, su noi uomini, su questo mondo attraversato dalla sofferenza e dal male. Ai piedi di Cristo rimane il teschio, simbolo della peste e della morte.
La nostra speranza, pensi tornando, come da molto lontano, dalle ombre di palazzo Alliata al sole di Palermo, è, allora e oggi, soltanto in quella Croce.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!