La preghiera del mattino

Nella crisi ucraina anche Draghi deve trattare. Per non farci penalizzare dall’Europa

Mario Draghi
Il presidente del Consiglio Mario Draghi (foto Ansa)

Su Leggo si scrive: «Secondo fonti russe, scrive l’agenzia Adnkronos, il ritiro delle truppe potrebbe arrivare alla fine del mese di aprile».

Nonostante tutto, nonostante gli orrori di cui sono i primi responsabili i russi, sforzarsi di cercare uno sbocco alla guerra scoppiata in Ucraina, è la prima urgenza.

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Su Startmag Michele Magno scrive: «L’idea di rendere neutrale la Germania fu avanzata dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali nel 1945-1946, promossa dal segretario di Stato James Francis Byrnes, che in occasione dell’incontro dei ministri degli Esteri degli alleati a Londra (10 settembre-2 ottobre 1945) propose di stabilire una zona smilitarizzata in Germania per 25 anni. Il piano di Byrnes si conformava alla decisione presa nella conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) da Harry Truman, Iosif Stalin e Winston Churchill di smilitarizzare la Germania. Sempre Byrnes, nella Conferenza di Parigi (1946), caldeggiò il suo piano di una zona smilitarizzata in Germania per 25-40 anni».

È ben comprensibile la volontà del presidente ucraino Volodymyr Zelensky di non affidare la neutralità del suo paese a una Russia che in queste settimane ha mostrato tutto il suo volto brutale, ed è opportuno in tal senso riflettere su chi e come possa garantire Kiev, una volta finita l’aggressione russa. Magno dà un suo contributo ricordando discussioni del passato sulla “neutralità”. Va ricordato come in Unione Sovietica, chi si batté per una Germania neutrale e per stemperare la politica dei blocchi contrapposti che veniva definendosi dopo la conferenza di Yalta, fu Lavrenti Beria. Talvolta anche alcuni “mostri” hanno idee interessanti su come si possa costruire la pace

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Su Huffington Post Italia Dora Attubato scrive: «L’occasione di scontro era sempre la Crimea che, fino al 1853, faceva parte dell’impero turco-ottomano. La politica espansionista dello zar Nicola I ai danni dei turchi veniva generalmente considerata, come scriveva Gabriele De Rosa, “un’indebita ingerenza negli affari interni di un altro Stato” e la reazione delle due potenze occidentali di allora, Francia e Inghilterra (a cui si aggiunse il Regno di Sardegna), nonostante l’inerzia dell’impero austroungarico, fu di isolare la Russia. La certezza era che da quel conflitto sarebbe mutato l’assetto geopolitico. Infatti, la Pace di Parigi del 1856 disegnò un equilibrio totalmente nuovo delle alleanze. Perché Nicola I voleva la Crimea? Per le stesse ragioni di Putin: lo sbocco sul mar Nero. La fortezza di Sebastopoli era ed è, infatti, un importantissimo porto commerciale. Perché andava fermato? Bisognava scongiurare il rischio di una chiusura degli sbocchi commerciali in Oriente, garantito dalla Convenzione di Londra del 1841, che impediva il passaggio dei navigli militari di qualsiasi nazione nei canali del Bosforo e dei Dardanelli».

Ricordare la guerra di Crimea è una scelta acuta perché dà prospettiva storica alle vicende che stiamo vivendo: la spinta al mare della Russia, il Grande gioco del Regno Unito che voleva colpire Mosca anche per proteggere dal Centro Asia il suo impero in India. Le mosse di Londra e Parigi per prepararsi a spartire l’impero ottomano in via di disgregazione. Certo che parlare di “indebite ingerenze” negli affari di una Turchia che aveva invaso nei secoli precedenti mezza Europa può apparire una forzatura.

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Su Formiche Otto Lanzavecchia scrive: «Wang ha ripetutamente chiesto ai colleghi europei di “sedersi e parlare” con Mosca per creare un “meccanismo di sicurezza a lungo termine”, scrive Lau. Il diplomatico ha utilizzato il termine russo della “sicurezza indivisibile”».

Considerate le scelte aggressive messe in campo in queste settimane da Mosca, è senza dubbio un momento difficile per considerare con serenità specifiche proposte politiche russe. Peraltro non capisco perché in sé l’idea di un “sistema di sicurezza indivisibile” continentale sia da scartare senza una seria discussione

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Non è escluso che l’accordo indo-russo sul meccanismo rupie-rubli possa far arrabbiare gli Stati Uniti, che non vogliono vedere intaccata l’egemonia del dollaro e che rappresentano la principale destinazione per le esportazioni indiane, acquistando ogni anno beni per più di 50 miliardi di dollari. Nel 2021 le esportazioni indiane in Russia sono valse 3,3 miliardi. Nei piani di India e Russia, tuttavia, c’è l’intenzione di potenziare il commercio bilaterale fino a portarlo a 30 miliardi di dollari entro il 2025, contro gli 8 del 2021. Attualmente, la bilancia degli scambi pende a favore di Mosca».

Nel descrivere il “totale” isolamento di Mosca bisognerebbe forse avere qualche prudenza in più.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Stefano Magni scrive: «Piccole guerre crescono e non fanno notizia. In un qualsiasi altro periodo storico, si sarebbe parlato di queste crisi come di serie minacce alla pace mondiale. Oggi, con l’invasione russa dell’Ucraina in corso, vengono relegate in fondo ai giornali. Ma non è solo una questione mediatica: anche la politica, statunitense soprattutto, chiude un occhio e passa oltre».

I missili lanciati dall’Iran in Iraq che hanno colpito anche il consolato americano, i nuovi missili balistici lanciati dalla Nord Corea, secondo Magni ricordano come gli equilibri internazionali non siamo mai stabiliti definitivamente e che anche di fronte a una crisi tragica come quella ucraina, bisognerebbe mantenere una visione e una strategia globale.

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Su Formiche Giulio Sapelli dice: «Questa guerra non è la causa, ma la conseguenza di una profonda trasformazione del potere a Mosca iniziata anni fa. È la fine della dialettica con i proto-eltsiniani, come Dmitry Medvedev, ex presidente e capo del partito Russia Unita. Con chi, a partire da Boris Eltsin, ha avallato una politica di spoliazione a vantaggio del capitalismo anglosassone e degli oligarchi ad esso legati».

Sapelli ci invita a studiare con attenzione le drammatiche dinamiche politiche che si sono innescate a Mosca, anche per capire le basi dell’invasione dell’Ucraina.

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Sul Sussidiario Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, dice: «A fronte della crescente incertezza determinata dalla guerra in corso sarebbe più che mai necessario mitigarne gli effetti fornendo sin da ora dei parametri chiari rispetto al quadro di politica economica, in particolare sulla reintroduzione o meno dei vincoli connessi al Patto di stabilità. Soprattutto in un contesto in cui l’Italia è colpita dalle sanzioni in modo significativo».

Roma deve agire con sapienza perché la crisi ucraina non sia l’ennesima occasione (Libia, South Stream, patto di stabilità, gas cipriota) per penalizzare il nostro paese rispetto all’asse franco-tedesco.

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Su Huffington Post Italia Angela Mauro scrive: «Mario Draghi matura l’idea durante il Consiglio europeo di Versailles la scorsa settimana: un vertice dei paesi mediterranei a Roma per elaborare un piano comune sul caro-energia che sfidi i “no” dell’Olanda, della Germania e di altri paesi del Nord. Il premier ne parla prima con Pedro Sánchez. Poi con il greco Kyriakos Mitsotakis, con il portoghese Antonio Costa».

Ecco una mossa intelligente che potrebbe aiutarci a condurre da posizioni di maggior forza le trattative con Berlino e Parigi.

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Su Dagospia si riporta dalle agenzie queste affermazioni di Mario Draghi: «“Assistiamo a questa situazione in cui i contatti” tra la Russia e i vari esponenti europei “aprono una speranza che però viene puntualmente smentita. Quello che bisogna osservare sono sempre i fatti che ci mostrano una determinazione a continuare la guerra, anche durante i colloqui non c’è stato di fatto il cessate il fuoco. Però la pace va cercata a ogni costo e in questa ricerca bisogna essere credibili e Cina Usa lo sono, e se c’è un sentiero che lascia sperare bene è questo”».

L’esigenza di Draghi di mantenere un legame particolarmente stretto con Washington è fondamentale: è quella che ci dà una carta di più nelle trattative all’interno dell’Unione Europea. Certo, se poi Joe Biden avesse una strategia internazionale meno condizionata dalle elezioni di midterm, sarebbe meglio. Ma, come si sa, la politica è l’arte del possibile.

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