
Costretti da un microquid a fare i conti con il mistero che ci rende davvero umani

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
L’avete visto? È un puntino. Grazie a un supermicroscopio è stato possibile avere le prime immagini delle particelle virali di Sars-CoV-2. È stato necessario «un ingrandimento di 30.000X, di 50.000X e 140.000X» ci hanno detto gli scienziati che hanno “scattato” la foto. Anche così, l’avete visto? Rimane un puntino. Eppure questo quid infinitamente piccolo – il «nanokiller» per dirla con terminologia amiconiana – s’è dimostrato infinitamente più forte di quell’uomo che è stato capace di andare sulla Luna, di scandagliare gli abissi, di far fiorire il deserto.
A metà marzo, durante una trasmissione tv, Lilli Gruber ha introdotto l’ospite, il professore primario infettivologo Massimo Galli, definendolo «cosiddetto esperto». Sui giornali, il giorno dopo, l’accento è stato posto sulla “gaffe” della conduttrice, ma più interessante è stata la risposta di Galli: «Lei ha utilizzato un termine divertente, il “cosiddetto esperto”; su una malattia di questo genere, completamente nuova, il termine “cosiddetto” è corretto».

Sebbene ne siano spesso diméntichi, gli uomini s’arrabattano sempre in questa situazione: la realtà – anche quando si presenta in forma di microscopico quid – è sempre più grande di loro, più forte di loro, più ampia della loro razionalità euclidea. «Ci sono più cose in Cielo e in Terra che nella tua filosofia, Orazio», ammoniva Shakespeare. Per san Paolo l’uomo procede «a tentoni» e per Milan Kundera ci muoviamo «nella nebbia, non nel buio, ma nella nebbia, nella quale si ha la possibilità di muoversi, ma non di vedere a distanza».
Fino all’era moderna, questa era la consapevolezza comune; solo a partire dagli ultimi due secoli, l’uomo occidentale ha cominciato a presumere di “poter fare da sé”, di essere più potente della realtà, di esserne, in definitiva, il padrone. Poi è bastato un killer microscopico per sciogliere le ali di Icaro.
Ma in queste settimane, non abbiamo visto solo questo. Accanto a questo, è apparso sopra il pelo dell’acqua della nostra distrazione, a volte in maniera confusa e abborracciata, a volte con cristallina evidenza, la generosa capacità umana di “rispondere” a questo sfuggente e imponente quid.
Negli ospedali, alcuni medici sono scappati, ma la stragrande maggioranza è rimasta in corsia, a proprio rischio e pericolo. Nelle scuole, alcuni insegnanti si sono messi in malattia, ma la maggioranza s’è impegnata in faticose lezioni online perché i ragazzi non fossero lasciati soli. Nelle parrocchie, qualche sacerdote s’è chiuso in sacrestia (dove stava già prima), ma molti sono usciti e hanno trovato il modo di essere vicini ai fedeli – il nostro preferito è stato il parroco napoletano che ha detto messa sul tetto, in mezzo ad avemaria e panni svolazzanti.
Questa spontaneità, questo sentimento comune di precarietà e di vicinanza cosa ci dice? Il fatto che molti medici, accanto a storie terribili e inconsolabili, ci abbiamo raccontato anche di straordinari momenti di dedizione, di solidarietà umana, di – diremo in una parola – “verità”, cosa ci dice? Non sbaglia Pier Paolo Bellini quando, su queste pagine, scrive che «hanno dovuto fare i conti con la radice “vocazionale” del loro operare (andare al fondo, fino a Ippocrate). E li abbiamo visti cambiare faccia, perché la vocazione “conviene”. Sempre».
Tutto questo ci dice che il problema non è vivere, ma vivere senza significato. Perché, grattata via la coltre di chiacchiere e illusioni con cui di solito siamo soliti ammantare i nostri pregiudizi di cosiddetti esperti, tutti abbiamo capito che c’era poco da scherzare. Come diceva Vaclav Havel, «il senso della vita non è un punto alla fine della vita, ma l’inizio di un’esperienza più profonda della vita. Essere perennemente in contatto con questo mistero ci rende infine autenticamente umani».
C’è un ultimo passo da fare ed è quello cui esorta il cardinale Ruini: «Il cristiano sa che la morte non ha l’ultima parola. Bisogna pur dirlo questo». Bisogna dirlo, trovare la maniera per dirlo, perché tutte le domande che ci facciamo in questo periodo abbiano un’ipotesi di risposta che nessuna analisi al microscopio, nessun parere di scienziato, nessun vaccino ci potrà mai dare.
Foto Ansa
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