
Cos’è il dialogo secondo Ratzinger e Giussani

Caro direttore, mi è capitato, casualmente, di rileggere la prefazione dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger al primo volume della storia di “Comunione e Liberazione” scritta da Mons. Massimo Camisasca e pubblicata dalle edizioni San Paolo nel 2001. In essa, il futuro Papa sottolinea alcuni aspetti della posizione e delle proposte del Servo di Dio don Giussani, rimarcando, con soddisfazione, l’originalità del fondatore di CL, in particolare sul tema della “ontologia” (la grande dimenticata da larga parte del mondo cattolico del dopoguerra, tutto preoccupato della “organizzazione”) e del “dialogo”. Su quest’ultimo punto, Ratzinger esprime alcuni concetti, che mi sembra opportuno richiamare, anche per fare chiarezza circa un aspetto importante della vita cristiana, sul quale mi pare che oggi vi siano molti equivoci.
Nel considerare importante l’idea di dialogo elaborata da don Giussani, il Card. Ratzinger scrive: “Per Bobbio e Calogero la verità è il frutto di una dialettica di posizioni; l’identità nasce dal dialogo: una concezione che rimanda all’idea della società aperta di Popper, in cui il consenso si sviluppa senza un fondamento che venga prima, attraverso un gioco di congetture e confutazioni. Per Giussani al contrario l’identità non è prodotto del dialogo, ma ne è il presupposto e così la verità non è prodotto della discussione, ma la precede e in essa non deve essere creata, bensì trovata”.
Ratzinger si riferiva, in particolare, a quanto scritto da Camisasca a proposito del “raggio”, alle pagine 109-116 del libro citato.
Quanto scritto dal Card. Ratzinger trova perfetto riscontro in quanto scritto da don Giussani nel libretto “Appunti di metodo cristiano” (il libretto marrone) nel 1964 ed ora raccolto nel volume “Il cammino al vero è un’esperienza”, edito da Rizzoli. Le pagine 193-195 sono dedicate proprio al tema del dialogo e vi si legge che per il cristiano “il dialogo è lo strumento della missione”. Inoltre, così scrive don Giussani: “L’apertura senza limite, che è propria del dialogo come fattore evolutivo della persona e creativo di una società nuova, ha una gravissima necessità: non è mai vero dialogo se non in quanto io porto coscienza di me. E’ dialogo, cioè, se viene vissuto come paragone tra la proposta dell’altro e la coscienza della proposta che rappresento io, che sono io: non è dialogo, cioè, se non nella misura della mia maturità nella coscienza di me. Per questo se la ‘crisi’, nel senso di impegno per un vaglio della propria tradizione, non precede logicamente il dialogo con l’altro, in quella misura io resto bloccato dall’influsso dell’altro, oppure l’altro che respingo provoca un irrigidimento irrazionale nella mia posizione. Quindi è vero che il dialogo implica un’apertura verso l’altro, chiunque sia…ma il dialogo implica anche una maturità di me, una coscienza critica di quello che sono. Se non si tiene presente questo, sorge un pericolo grande: confondere il dialogo con il compromesso.
Partire da ciò che si ha in comune con l’altro non significa infatti dire necessariamente la stessa cosa, pur usando le stesse parole: la giustizia dell’altro non è la giustizia del cristiano…..C’è, per usare una parola della filosofia scolastica, una ‘forma’ diversa nelle parole che usiamo, cioè una forma diversa nel nostro modo di percepire, di sentire, di affrontare le cose”.
Mi pare, cioè, che il problema dell’identità venga necessariamente ‘prima’ di quello del dialogo. Senza forte identità, non avremmo nulla da dire all’altro. Anzi, correremmo il pericolo fatale di adeguasi all’altro. E come ci avverte il Vangelo i figli delle tenebre sono più forti e più furbi dei figli della luce.
Foto Ansa
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