
Ci sono cose di cui non si parla. Come l’accartocciarsi delle foglie in autunno
Questo mercoledì di settembre è ciò che tutti definirebbero una bellissima giornata. Tiepida, le chiome degli alberi che docilmente sbiadiscono al sole. Sole un po’ pallido, a dir la verità, in un cielo velato. Ma, nei giardini, le rose fioriscono ancora.
Io però non riesco a distogliere lo sguardo dagli alberi: ancora carichi di foglie, ma spente, come se la linfa, nelle loro vene, avesse smesso di scorrere. Non c’è un alito di vento, e solo a tratti una foglia solitaria cade a terra, con un impercettibile fruscio. Le altre se ne restano lassù, sui rami, a guardarla – vive ancora, ma illividite ormai.
Non so perché io sia fatta così male, e avverta in questa bella giornata un fiato di cenere. Preferisco, piuttosto, un’alba di gennaio: buia, con il ghiaccio che scricchiola per terra, e il freddo che morde le mani e taglia le labbra. La preferisco, perché lì la morte è ormai compiuta – e non c’è niente che ancora possa morire. Mentre sotto alla terra brinata i semi stanno serrati in sé, e quasi pronti a germogliare.
Mi guardo intorno per strada, cercando nelle facce dei passanti la mia stessa malinconia. Ma sembrano tutti indifferenti, come probabilmente, del resto, lo sembro io. Ci diciamo anzi, fra conoscenti: che splendida giornata.
Ci sono cose di cui, per convenzione, non si parla. Come l’impallidire e l’accartocciarsi delle foglie, a settembre, e il nostro calpestarle – come se non ci sussurrassero niente.
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