Cos’è mai questa verità?

Di Luigi Raffaini
12 Maggio 2015
Uno psichiatra affronta con le armi della medicina, della linguistica e della letteratura la domanda delle domande. L’interrogativo che muove ogni corda della persona e che non tollera elusione. Tanto meno davanti alla prospettiva della morte

nikolai-ge-what-is-truth-christ-and-pilate-wikiartQuesto articolo dello psichiatra Luigi Raffaini, tratto dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi (una proposta che si può sottoscrivere in questa pagina).

Nel rapporto con la realtà il bisogno della verità è un fattore costitutivo della nostra natura, investe tutti gli ambiti antropologici (relazionali, pratici, etici, morali, gnoseologici e spirituali) e mette in azione tutto l’umano perché nella conoscenza della verità si gioca il senso della vita e la salus di ogni persona sia nel senso di salute che di salvezza. Ecco il significato ultimo delle parole di san Paolo ai più ignoranti, ai più poveri, i cristiani di Tessalonica: «Vagliate ogni cosa, giudicate tutto e trattenete ciò che è buono, è autentico e vero».

Nella malattia, accompagnata dal dolore e dal pensiero della morte, questa necessità diviene un anelito struggente, ineludibile, cogente, perché la persona si trova di fronte all’ultimo passaggio della propria esistenza, quello cruciale e decisivo.

«Mi dica la verità! Ho bisogno di sapere la verità».

È una richiesta che ritorna sempre al momento della diagnosi, una richiesta piena certo di apprensione, ma ineludibile, che attende una risposta incontrovertibile. Perché l’esigenza di verità, che sovrasta e sorpassa di gran lunga gli aspetti strettamente medici, diventa il fulcro e lo scopo della relazione fra chi la pone, “il paziente”, e chi è chiamato a rispondere, “il terapeuta”. Su di essa e a partire da essa si fonda il “ buon esito” di tutte le questioni messe in gioco dalla malattia, da quelle pratiche a quelle strettamente mediche, psicologico-relazionali e religiose.

Non si può mentire di fronte alla richiesta di verità, neanche quando ci viene chiesto – magari da un familiare del paziente, apparentemente per risparmiare ulteriore dolore – di eludere o elidere la risposta. Non si può mentire di fronte alla richiesta di verità, neanche quando intuiamo la paura di essa nell’altro, che pur desidera conoscerla.

Il principe nella prigione dorata
Eludere la richiesta di verità è sempre un tradimento della realtà, della relazione nonché della vita, una non verità che aggiunge sofferenza alla sofferenza. È quanto accade tutte le volte che una persona con il destino segnato dalla malattia viene circondata dalla congiura del silenzio e della menzogna. È quanto accade anche a Ioasaf, richiuso dal padre, il re Abenner, in un luogo isolato e ricolmo di delizie perché non debba conoscere i dolori del mondo, in particolare la malattia, la vecchiaia e la morte.

«Ora, dato che il padre suo e sovrano veniva di frequente a rendergli visita – l’amava infatti di smisurato amore – un giorno il figliolo gli disse: “O signore e re, m’è nato desiderio d’apprender da te una cosa, a cagion della quale pena continua e ininterrotta angoscia mi consumano l’animo”. E il padre, addolorato fin nelle viscere già solo a queste parole, rispose al fanciullo: “Dimmi, figlio dilettissimo, qual è la pena che ti tormenta, e subito farò sì di mutarla in letizia”. Dice il giovanetto: “Qual è il motivo di questa mia reclusione, per cui mi hai serrato in tal guisa tra queste mura e dietro queste sbarre, decidendo ch’io non possa mai sortirne, e nessuno possa venire a trovarmi?”. E il padre disse: “Non voglio, figliolo, che tu veda alcunché di quanto potrebbe amareggiarti il cuore e rovinare la tua felicità: poi che ho in animo che tu viva per sempre in agio costante e in completa letizia e giocondità”. Per tutta risposta dice il figlio al padre: “Sappi bene, o signore, che in tal modo io non vivo in letizia e giocondità, ma piuttosto nell’afflizione e in un’ansia strana, tali che il cibo e le bevande stessi mi appaiono sgradevoli e amari; poi che io bramo veder tutto quel ch’esiste fuori di queste porte e mura. Se dunque tu non vuoi ch’io viva nel dolore, dà ordine ch’esca quando e quanto voglio, e possa rallegrarmi l’anima alla vista di quanto finora mi fu celato”» (Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha, Einaudi).

È, per uscire dalla “fabula”, quanto accade all’Ivan Il’ic di Lev Tolstoj.

«Il maggior tormento di Ivan Il’ic era la menzogna, la menzogna adottata da tutti, chi sa perché, che consisteva nel dire che egli era soltanto malato ma che non morrebbe e che quindi se ne doveva star tranquillo e curarsi e tutto sarebbe andato bene. E lui invece sapeva già che, per quanto si facesse, non ne sarebbero venute che sofferenze ancora più atroci e poi la morte. E questa menzogna lo tormentava; lo tormentava il vedere che nessuno voleva confessare ciò che tutti sapevano, che lui stesso sapeva, e invece si mentiva sul suo orrendo caso, si voleva che anche lui prendesse parte a quella menzogna. Menzogna, menzogna, suprema menzogna alla vigilia della sua morte, che abbassava il tremendo, solenne atto della sua morte allo stesso livello di tutte quelle visite, delle tende, dello storione per i pranzi… Questo era il suo maggior tormento. E, strano!, molte volte, quando la gente gli contava quelle fandonie, ci correva un capello che egli non gridasse: “Smettete di mentire. Voi sapete e io so che sto per morire: sicché almeno smettete queste menzogne!”. Ma non aveva mai il coraggio di dir quelle parole. Il tremendo, spaventevole fatto del suo avviarsi verso la morte, per tutti coloro che lo circondavano, egli lo vedeva, era abbassato al livello di una circostanza spiacevole, quasi di una sconvenienza (come se accadesse che una persona, entrando in un salotto, spargesse intorno un cattivo odore) e tutta la sua vita egli aveva avuto il culto delle convenienze: vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno voleva capire il suo stato» (La morte di Ivan Il’ic).

Dopo questa premessa sull’importanza di non disattendere la richiesta di verità da parte di chi la pone in una circostanza della vita così cruciale come la malattia mortale, subito s’appressa un’altra questione altrettanto fondamentale, quella riassunta dalla domanda di Pilato a Gesù.

«Quid est veritas?».

Proviamo a cercare una risposta a questa domanda capitale chiedendo l’ausilio dell’analisi etimologica.

Il termine latino veritas deriva dalla radice indoeuropea var da cui il sanscrito vra-ta-m, azione sacra, voto, lo zend varena, fede, il greco bretas, oggetto di culto, il russo vera, fede, verit’, credere, i tedeschi währen, preservare, e wehren, proibire. In origine il latino “var”, da cui anche vereor, l’equivalente del greco deinos, si riferiva al culto, al timore e alla circospezione di chi si accosta troppo alle cose, ai luoghi e agli oggetti sacri. In epoca posteriore ha poi acquisito un’accezione anche morale e giuridica, da cui l’italiano veridico e verdetto.

ragione-verita-amiciziaInfine in lingua russa ci sono due termini per definire la verità, istina e pravda. Il teologo e scienziato russo Pavel Aleksandrovic Florenskij, in Stolp i utverzdenie istiny (“La colonna e il fondamento della verità”), correla la verità, istina, alla sua radice indoeuropea es, in sanscrito as, la prima persona est’ nel paleoslavo, nel greco eimi, nel latino (e)sum, est, nel tedesco ist. La stessa radice serve a comporre il termine respirare: as-u-s è il respiro vitale, il respiro della vita, in latino os (bocca) è simile al sanscrito as, da cui il tedesco atmen. Da qui la relazione dei termini respirare-vivere-essere. Ìstina allora è l’esistenza perdurante, l’essere vivente, vivo, respirante, cioè dotato della condizione essenziale di vita e di esistenza.

Un cammino dentro una relazione
Del termine pravda il filosofo ucraino Kostantin Borisovic Sigov sottolinea il «proverbiale carattere pratico», e nota che nel vocabolario di Vladimir Dal’ pravda si definisce «come verità (istina) di fatto, verità nell’immagine, nel bene; giustizia, equità». Negli esempi addotti da Dal’ l’accento cade manifestamente sulla partecipazione attiva e sull’atto in quanto tale: «fare giustizia e verità»; «difendere la verità»; «vivere secondo verità»; «veridicità (pravdi-vost’) come pieno accordo tra parola e opera».

La versione etimologica più verosimile riporta prav all’indoeuropeo pro-vos, parente del latino probus, buono (dobryj), onesto (cestnyj), probo (porjadocnyj); all’antico indiano prabhús, eminente (vydajuscijsja), superiore (prevoschodjascij). In antico slavo, bulgaro, ucraino e russo il primo significato di pravda è giustizia (spravedlivost’), il secondo verità (istina); in serbo-croato prâvda significa disposizione (polozenie), legge, questione giudiziaria; connotazioni analoghe recano il cecoslovacco pravda e il polacco prawda (K. B. Sigov, “Pravda”, Vocabulaire Européen des Philosophies: Dictionnaire des Intraduisibles, edito da Barbara Cassin, Parigi, 2005)

Da quest’analisi etimologica deriva che affrontare la verità comporta sempre una grande circospezione, un timore reverenziale potremmo dire, a causa del valore sacro che la verità ha in sé e della sacralità della relazione fra medico e paziente (veritas); da ciò deriva una necessità di probità, equità e giustizia anche dal punto di vista dell’operare e quindi dell’etica medica (pravda), perché nella verità viene svelato qualcosa che altrimenti rischia di rimanere nascosto o dimenticato, il senso dell’esistenza della persona e della vita (aletheia), in quanto la verità è il respiro della vita, l’incarnazione di ciò che costituisce la vita (istina).

Questo respiro della vita, pur rimanendo uguale a se stesso, non costituisce qualcosa di astratto ma s’incarna in modo originale in ogni persona perché, come ha detto papa Francesco rispondendo a Eugenio Scalfari, non si può parlare, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”?».

La necessità di una compagnia
Foucault riferisce che Galeno in Sulla diagnosi e la cura delle passioni dell’anima afferma che per guarire dalle passioni occorre un parresiastes, uno che dica la verità sulle cose che non riusciamo da noi stessi a vedere e che così restituisca salute al corpo prostrato dalle passioni, perché ciò che serve è che egli sappia dirci la verità su noi stessi. (M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, a cura di A. Galeotti, Donzelli, 1998).

Ecco perché, nel romanzo Il Maestro e Margherita, quando Pilato pronuncia il fatidico «Che cos’è la verità?», Jeshua (Cristo) risponde spavaldo e allusivo:

«La verità anzitutto è che ti fa male la testa, ti fa talmente male che pavidamente pensi alla morte. Non solo non sei in grado di parlare con me, ma ti è perfino difficile guardarmi. E adesso sono involontariamente il tuo torturatore, il che mi amareggia. Non riesci neppure a pensare e sogni solo che venga il tuo cane, l’unico essere, evidentemente, al quale sei affezionato. Ma il tuo tormento cesserà subito, la testa non ti farà male» (M. Bulgakov, Il maestro e Margherita, Garzanti, 1976).

E ancora, poco dopo:

«Il guaio è – nessuno interrompeva l’uomo legato – che sei troppo rinchiuso in te stesso, e non hai più alcuna fiducia negli uomini. Non si può, ammettilo, riporre tutto il proprio affetto in un cane. La tua vita è vuota, egemone – e qui l’uomo si permise di sorridere» (Bulgakov, op. cit.).

Dal momento che la verità è inerente alla persona e si dice negli avvenimenti che ad essa accadono e che la verità è una relazione, il percorso verso di essa necessita di una compagnia; nell’ultimo tratto della vita gli avvenimenti concernono la vecchiaia, la malattia, il dolore e la morte; la verità che la persona cerca pur partendo dalle proprie condizioni cliniche va ben oltre le stesse, perché è inerente al senso ultimo della propria originale esistenza.

La compagnia quindi ha come responsabilità quella di aiutare la persona al compimento della vita, a discernere la propria essenza costitutiva, sia originale che originaria, a comprendere il senso della sua sua esistenza e a intravedere il destino che la attende, a partire proprio dalla verità di quello che accade, cioè la malattia e il dolore.

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