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Un controcanto alla smart euforia

Di Emanuele Boffi
27 Febbraio 2022
Gli aedi del lavoro agile auspicano una società “senza luoghi” dove ci si possa liberare dalle fatiche del vivere. Ma i mesi in lockdown ci hanno mostrato l’esatto opposto: si fiorisce solo in un legame
Ragazza in smart working
Foto di Christin Hume per Unsplash

Il sociologo simpatizzante grillino Domenico De Masi ha scritto che «nel 2015 si stimava che per passare dal lavoro in ufficio allo smart working un’azienda avrebbe avuto bisogno di 12-18 mesi necessari per la riorganizzazione; il coronavirus dimostrerà che bastano 12-18 ore». È andata proprio così? Non esattamente. Soprattutto perché, come spiegano nel loro recente volume Smart Working Reloaded Luca Pesenti, docente di Organizzazione e capitale umano e Sistemi di welfare comparati all’Università Cattolica di Milano, e Giovanni Scansani, giornalista ed esperto del settore, ciò che in questi due anni di pandemia abbiamo chiamato smart working non era smart working.
Se per smart working (SW d’ora innanzi) intendiamo un lavoro frutto di una scelta libera, volontaria e consapevole da parte del lavoratore, che esercita un ruolo non più solo esecutivo ma basato su un’attività che ha obiettivi condivisi e risultati verificati, quello che si è svolto in Italia in questi due anni è st...

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