
Contro la maternità surrogata

Lo sappiamo: qualsiasi informazione reperita sul web va verificata e la fonte sottoposta ad attenta verifica per non imbattersi e diffondere notizie false o, ancora peggio, vere e proprie bufale. Quello che però non ti aspetti è leggere articoli di approfondimento giuridico scritti con evidente malafede. L’argomento è ghiotto: maternità surrogata. Insomma, per intenderci, un fenomeno che coinvolge contemporaneamente il diritto, la bioetica, la medicina, la psicologia, i talk show.
Il bravo giurista, allora, per capirci qualcosa e, soprattutto per fare capire qualcosa al lettore, dovrebbe dapprima rispolverare i principi portanti del nostro ordinamento giuridico, poi andare a vedere cosa ne pensa la “dottrina” (cioè gli insigni studiosi del diritto) e, infine, verificare se, nel frattempo, sia o meno intervenuta qualche pronuncia giurisprudenziale. Ecco, direi che normalmente si procede così.
Nell’articolo “incriminato”, invece, non solo si chiede a una biologa di dare un parere giuridico (sic!), ma il taglio è aprioristicamente volto verso la legalizzazione della surrogazione di maternità (giustificato dal dilagare del “turismo procreativo” verso i paesi nei quali è consentita e/o più economica), senza alcuna analisi obiettiva e analitica del fenomeno dal punto di vista giuridico, giungendo addirittura ad affermare che ancora nessuna pronuncia giudiziale sia intervenuta sul punto. Affermazione, questa, del tutto falsa.
Per comprendere la scelta di vietare la pratica surrogativa e anche la sua pubblicizzazione (legge n. 40/2004 che contiene “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), bisogna sapere (ma come si fa se gli stessi specialisti del settore omettono di dirlo?) che esiste una linea di continuità giuridica tra l’attuale legislazione e l’orientamento giurisprudenziale precedentemente formatosi.
Infatti, il primo caso di maternità surrogata in Italia fu deciso dal Tribunale di Monza nel 1989 e riguardava una coppia di coniugi senza figli che aveva concluso un contratto con un’immigrata algerina, in forza del quale quest’ultima s’impegnava, dietro corrispettivo, a sottoporsi ad inseminazione artificiale con il seme del coniuge, a portare avanti la gravidanza ed a consegnare allo stesso e alla moglie il nascituro, rinunziando a qualunque diritto nei suoi confronti. Dopo essersi pentita e rifiutata di adempiere gli impegni assunti, i coniugi si rivolgevano al tribunale per ottenere l’affidamento in via definitiva ad entrambi. I giudici decidevano per il riconoscimento del minore come figlio naturale del padre (biologico e committente), che ne poteva chiedere l’inserimento nella propria famiglia legittima, ma anche come figlio naturale della madre surrogante, riconoscendo il nostro ordinamento, all’articolo 269 del codice civile, il principio – corrispondente ad un’evidenza naturale – per cui è madre colei che partorisce.
Questa sentenza è importante perché stabilisce che il contratto di maternità surrogata è inammissibile in quanto contrario alla legge (realizza una transazione prima non contemplata ed oggi espressamente vietata, operando in frode della stessa ed aggirando anche altre leggi, come quella sull’adozione), all’ordine pubblico (con il quale mal si accorda) e, almeno in caso di pagamento a favore della madre surrogante, anche al buon costume, poiché tale principio verrebbe forse rispettato solo nel caso in cui la pratica fosse totalmente gratuita e quindi realizzata da un puro movente altruistico.
In estrema sintesi, possiamo affermare che legalizzare la maternità surrogata significherebbe violare una serie di principi portanti del nostro ordinamento giuridico.
Infatti, non possono essere oggetto di un contratto tra privati – perché non sono beni in senso giuridico – le parti del corpo umano che riguardano gli organi della riproduzione: l’individuo non è titolare di un diritto patrimoniale, cioè trattandosi di beni indisponibili non può alienali, trasferirli o “affittarli” perché, così facendo, potrebbe diminuirne la loro funzione (sono già cronaca i casi di donne che hanno subito danni irreversibili alla loro capacità riproduttiva a seguito del “bombardamento ormonale” o per complicazioni legate alla gestazione). La dottrina prevalente (cioè gli studiosi di diritto) è fondamentalmente d’accordo nell’escludere che il materiale riproduttivo possa essere equiparato ad un bene economico, proprio in considerazione delle peculiarità biologiche legate alla riproduzione di altri essere viventi: è chiara a tutti la differenza che passa tra la donazione di un organo (anche tra vivi) e la donazione del seme e degli ovuli!
La sentenza, poi, rifiuta qualsiasi analogia tra maternità surrogata e adozione, essendo quest’ultimo istituto (già per espressa interpretazione della Corte Costituzionale, sentenza n. 11 del 10/02/1981) volto esclusivamente alla tutela dell’interesse del minore e non a quello della coppia adottante a sopperire alla propria incapacità procreativa. Ma addirittura si spinge oltre, affermando che per sviluppare appieno la sua personalità, il bambino deve essere educato ed allevato “in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto in caso di incapacità di questa, in una famiglia sostitutiva”.
Insomma, si può dire a chiare lettere che la maternità surrogata non è una modalità (ulteriore rispetto all’adozione) per ottemperare al legittimo desiderio procreativo di una coppia priva di figli, per l’evidente ragione che l’adozione presuppone l’esistenza in vita del minore adottabile e il suo bisogno di tutela e non prioritariamente il desiderio della coppia sterile; la surrogazione, invece, inverte tale ordine di interessi (cioè vede prevalere l’interesse alla procreazione della coppia su quello del minore).
Ecco, allora, che qualcuno teorizza l’esistenza di “nuovi diritti riproduttivi”, meritevoli di tutela giuridica perché già ammessi in altri paesi, dove il riconoscimento dei diritti individuali, tra i quali il cosiddetto diritto alla procreazione”, incontrerebbe minori resistenze.
Anche qui un po’ di chiarezza non guasta. Il diritto alla procreazione non solo non è costituzionalmente previsto, ma non può essere posto quale principio fondante dei contratti di maternità surrogata per il semplice fatto che nel nostro ordinamento non trova spazio il concetto di paternità o di maternità meramente negoziali, disgiunte, cioè, da un qualche fondamento biologico e governate dall’autonomia privata, tali da cancellare dal mondo giuridico i legami naturali. E come autorevole dottrina italiana ha già avuto modo di precisare, anche se il diritto di procreare è un diritto fondamentale dell’individuo, esso deve essere “contemperato”, cioè messo a confronto con altri diritti fondamentali della persona, quali il diritto del nascituro ad avere due genitori e ad essere istruito, mantenuto ed educato da entrambi; motivo per cui solo le coppie eterosessuali, legalmente coniugate o stabilmente conviventi costituiscono soggetti legittimati alla procreazione medicalmente assistita.
La pratica della maternità surrogata si pone poi in contrasto con il principio per il quale gli status personali sono indisponibili. Detta così sembra un concetto per addetti ai lavori ed invece è semplicissimo: la madre, che acquista tale status al momento del parto, non può, per contratto, spogliarsene né, peggio ancora, modificare quello del figlio a favore della coppia committente. I motivi sono evidenti: alla maternità sono connessi una serie di diritti e doveri che, se trasferiti a terzi, potrebbero (come sta già succedendo) creare incertezza in relazione all’individuazione dei soggetti tenuti all’educazione ed al mantenimento del minore.
Quello che, invece, è escluso dal pubblico dibattito è il cosiddetto diritto del nascituro a conoscere le proprie origini. Negli anni, la pratica surrogativa è cambiata ed oggi si assiste all’aumento del numero delle persone coinvolte nel processo procreativo, non più solo tre (donna sterile della coppia eterosessuale più madre surrogante che è anche madre biologica), ma quattro o cinque per l’intervento dei donatori di materiale procreativo, diversi anche dai genitori committenti e dalla madre surrogante. Può inoltre trattarsi di coppie eterosessuali sposate e non, uomini e donne (eterosessuali e omosessuali) che non intendono intraprendere relazioni sentimentali, coppie omosessuali, fino al fenomeno del coinvolgimento di persone addirittura legate da vincolo di parentela e consanguineità (si pensi alla nonna che partorì il proprio nipote). Per onestà intellettuale si dovrebbe sapere (e divulgare) che, con sentenza n. 278 del 2013, la Corte Costituzionale (a proposito della delicata questione del bilanciamento tra il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini e il diritto della madre a rimanere anonima) ha stabilito il principio per cui «il bisogno di conoscenza delle proprie origini rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale». Se il diritto di conoscere le proprie origini è ampiamente riconosciuto nell’ambito di vicende particolarmente dolorose e drammatiche, quale la scelta di partorire in anonimato pur di non optare per l’interruzione volontaria della gravidanza, non si comprende per cui il predetto diritto dovrebbe essere violato in caso di maternità surrogata o, peggio ancora, essere ritenuto inferiore rispetto al diritto di procreare della coppia sterile!
Spetta al legislatore scegliere a quale diritto dare prevalenza e quello italiano (una volta tanto) ha chiaramente spostato l’ago della bilancia a favore del nascituro.
Con buona pace dei “nuovi diritti procreativi”!
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2 commenti
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contro la maternità surrogata, vero pugno allo stomaco e al cuore, disumana.