
Contrappello per la più grande Italia

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sabato scorso sulla pagina OFF de Il Giornale, spin-off del webmagazine che ho fondato 4 anni fa, ilgiornaleOFF.it, il direttore Giuli ha scagliato una volta ancora la nostra sfida alle stelle, come avrebbe detto FT Marinetti. Parlando di un irripetibile allineamento di pianeti, ha esortato il mondo della cultura, dell’arte, del giornalismo non conforme al pensiero unico (ex “de sinistra” ora globalista) a federarsi in una nuova realtà capace di fare sistema, di interagire e proporre un nuovo modello culturale. Lo stavo quasi per abbracciare! Perché è la nuova ardita scommessa che in queste settimane ho lanciato dalle pagine de ilgiornaleOFF.it con la Rete #CulturaIdentità. Un nuovo gruppo trasversale di intellettuali, artisti, associazioni, imprenditori che credono che il rilancio del nostro paese debba ripartire dal patrimonio artistico-culturale che ci invidia tutto il mondo.
Più di cento anni fa Marinetti con i suoi vagoni colmi di artisti italiani portava la nostra cultura con il Futurismo in giro per il mondo. E sappiamo bene cosa hanno prodotto questi viaggi in treno: l’unico movimento artistico (e non solo) italiano del Novecento di fama mondiale che ha aperto le porte all’Avanguardia. Con #CulturaIdentità i viaggi però li dovremmo fare in giro per l’Italia, perché la sfida vera è proprio qui, in questo ponte sul Mediterraneo tra Oriente e Occidente che è la nostra penisola. In questo ponte che il burattinaio Soros con le sue Ong cerca, con la complicità di “politici” alla Boldrini o alla Fiano, di usare (con il business dello sbarco dei migranti economici) come mezzo di realizzazione del disegno globalista.
Non è una pratica da sbrigare
Cultura Identità, due parole che il progetto di globalizzazione mondiale vorrebbe cancellare dal vocabolario. Due parole sulle quali invece si reggono le migliaia di città più o meno piccole, con le loro straordinarie tradizioni e opere d’arte, che formano il nostro stivale. E dentro queste città, migliaia di associazioni culturali formano piccole comunità che, nella maggior parte dei casi in silenzio o in punta di piedi, portano avanti nobili battaglie. A loro vuole dare voce la nostra Rete, a loro che organizzano – con l’elemosina delle casse dei loro Comuni spesso bloccati dallo scellerato Patto di Stabilità – mostre, convegni, festival, presentazioni di libri e tutte quelle attività culturali che potrebbero avere un effetto moltiplicatore su molti comparti della nostra economia. A loro che non si sono fatte inglobare dalle Arci di turno, a loro che non hanno mai seguito il gregge che chiedeva sostegno economico in cambio della militanza nell’ex Pc-Ulivo-Pd-Sel-Antifà e compagnia bella, a loro che sono la maggioranza, anche per qualità, ma non hanno mai avuto una rappresentanza politica – tantomeno nell’area di centrodestra – a loro va la nostra attenzione.
C’è bisogno insomma di un immaginario simbolico nuovo, in un’area vasta come una prateria. Per questo raccolgo la provocazione di Alessandro Giuli che giustamente ha ammonito che non basterà mettere qualche titolato professore a sbrigare la “pratica cultura” come Berlusconi fece nel 1996. Ci sono molti artisti come me lontani da sempre dal coro del “politicamente corretto” che hanno bisogno di un punto di riferimento nuovo che aggreghi e sia credibile per qualità e proposta. Insomma, niente più nani e ballerine o gente col cuore a sinistra e il portafogli a destra, che per un incomprensibile complesso di inferiorità chi ha governato a destra ha messo in posizioni di comando. E a molti degli intellettuali (dissidenti) che dovrebbero cominciare con noi a diventare sorridenti, propongo di superare quel cliché, ormai polveroso, dell’individualismo che porta solo a un nichilismo inconcludente.
Nel nome di mia figlia
Assonanze a parte, la novità sarebbe nel difendere la bellezza della nostra Italia, cominciando dai nostri figli, la classe dirigente del futuro. Sperando che crescano con una sensibilità culturale che oggi in Parlamento (e quindi nel paese) è merce rara. Mia figlia l’ho chiamata Luce, in onore dell’ultima figlia del fondatore del Futurismo, Luce Marinetti. Lei, della quale sono stato amico fino alla sua morte nel 2009, negli anni Settanta rilanciò il movimento del padre dall’Università di Yale grazie all’aiuto dell’editore ebreo Robert Strauss. Lei, che mi raccontava quando spiava bambina dalle tende della casa di piazza Adriana a Roma il padre discutere e creare con Balla, Depero e Luigi Russolo, è stata un modello di forza e tenacia, un esempio da seguire.
“È una battaglia persa… ma chi te lo fa fare?”. È la frase più ricorrente che mi sento ripetere. Lo faccio per mia figlia, perché il suo nome ha per me un significato profondo. Luce la figlia del Futurismo o, se preferite, la Luce, quella del Caravaggio. La Luce che deve tornare a splendere sulla nostra bella Italia. Non possiamo dimenticarci chi siamo, da dove veniamo, cosa abbiamo creato e cosa potremmo creare ancora di stupefacente. Facciamolo per i nostri figli, senza aspettare più Godot.
Foto Ansa
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