Doppio cognome. Poca rivoluzione, molti dubbi pratici

Di Caterina Giojelli
29 Aprile 2022
C'è chi ha gridato alla sconfitta del patriarcato, chi all'attentato alla famiglia. Ma la sentenza della Consulta non risolve discriminazioni né tutela i minori

C’è chi ha gridato alla sconfitta del patriarcato, chi all’attentato alla famiglia. Ma la notizia è che la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha definito illegittime le norme che impongono di dare automaticamente ai figli il cognome del padre nei fatti non rappresenterà la molto decantata svolta storica, epocale o rivoluzionaria: almeno sul piano del diritto, non saranno uno, due o più cognomi a dare la spallata decisiva alla rottamazione in corso dei padri e nemmeno a salvare dalle discriminazioni le donne di questa e delle prossime generazioni.

Daniela Bianchini, avvocato familiarista e membro del Centro Studi Livatino (qui trovate la sua puntuale analisi della sentenza e dei problemi pratici che si profilano), ricorda a Tempi che «di riforma del cognome si parla da oltre quarant’anni, la prima proposta di legge risale addirittura al 1979. In mezzo ci sono state richieste, battaglie in tribunale per evidenziare la difformità tra quanto previsto dal codice civile e valori costituzionali, in riferimento alla parità dei coniugi e, nel caso dei figli nati fuori dal matrimonio, alla parità dei genitori».

Doppio cognome, cosa dice la Consulta

Il primo ad occuparsi della questione, spiega Bianchini, cioè ad affrontare il fatto che una donna – che in base al principio di uguaglianza doveva godere pari dignità in ambito sociale a quella dell’uomo -, non potesse dare il proprio cognome ai propri figli, fu il tribunale di Palermo. Ci sono state sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e la stessa Corte costituzionale si pronunciò nel 2016 invitando il parlamento a legiferare, dichiarando incostituzionale la norma che non permetteva ai genitori di dare ai figli anche il cognome materno: «Si parlava tuttavia solo di figli nati in costanza di matrimonio e di una esigenza che tuttavia nella pratica non era avvertita come fondamentale dalla collettività, tanto che nonostante l’invito della Corte non si arrivò mai a una riforma e questo non ha determinato particolari reazioni sociali di rammarico. Ora questa nuova sentenza, che verrà depositata nelle prossime settimane, abolisce in ogni caso l’automatismo dell’attribuzione del cognome paterno, e invita il Parlamento ad occuparsi di una nuova legge che segua una nuova regola generale: attribuire i cognomi di entrambi i genitori salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In altre parole la Corte suggerisce che padre e madre decidano se dare ai figli un solo cognome, oppure entrambi, nell’ordine da essi concordato».

Cinque disegni di legge

Altra cosa è tuttavia vedere se l’indicazione diventerà legge e in che modo, con quali conseguenze e cosa succederà in caso di disaccordi: «A breve verranno unificati cinque disegni di legge sul tema depositati in Parlamento. Tra questi, solo quello presentato dalla senatrice Paola Binetti prevede l’attribuzione automatica di entrambi i cognomi, gli altri si basano sulla libera scelta. E in caso di mancato accordo, sull’attribuzione di entrambi i cognomi in ordine alfabetico”. Si è molto ironizzato sulla moltiplicazione dei cognomi per le generazioni future ma il rischio è inesistente, «un figlio deciderà quale cognome trasmettere al suo: chi ha detto che verrà scelto proprio quello materno? Se l’obiettivo è superare la visione maschilista e le discriminazioni, l’obiettivo non viene raggiunto pienamente. Non sarà questa sentenza a cambiare il modo di ragionare né ad aiutare le donne che veramente subiscono pressioni in ambito familiare».

L’obiettivo non è tutelare i minori

A lasciare perplessa Bianchini è piuttosto il riferimento della Corte alla tutela del figlio: «Qui si sta parlando di decisioni tra adulti che nulla aggiungono e nulla tolgono sul piano del diritto dei bambini. Bisogna distinguere gli ambiti: se la richiesta di poter attribuire al figlio anche il cognome materno è comprensibile alla luce del principio di parità fra padri e madri, tuttavia non lo è alla luce della tutela dell’identità del minore e quindi non si comprende la ragione per cui la Corte abbia ritenuto “lesiva dell’identità del figlio” la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Questo per dire che, a ben vedere, il superamento dell’automatismo del cognome paterno non risponde tanto ad esigenze dei minori, quanto piuttosto ad esigenze degli adulti. Con questo non si vuole dire che non si tratti di esigenze che meritano attenzione, ma che occorre fare chiarezza sugli obiettivi che si intende perseguire attraverso una modifica normativa, anche al fine di valutarne opportunamente l’effettiva necessità».

Che il vero obiettivo «non sia quello di tutelare i minori (perché in realtà l’automatismo di per sé non lede la loro identità) lo si evince dal fatto che la stessa Corte ha previsto l’opzione della scelta: questo significa che nella pratica, malgrado le eventuali modifiche che dovessero essere introdotte secondo le indicazioni della Consulta, potrebbe comunque di fatto reiterarsi l’attuale meccanismo di attribuzione del cognome. Dove starebbe, allora, la lesione dell’identità dei figli? Va inoltre considerato che già adesso le persone che hanno due cognomi non di rado per semplicità o per ragioni di preferenza finiscono con l’usarne uno solo nei quotidiani rapporti sociali, utilizzando il cognome per intero sui documenti o nelle situazioni che lo esigono. Per questo ripeto: in termini di eguaglianza si tratta di una sentenza sicuramente importante, ma non tanto da definirla epocale, come si è letto su diversi giornali. Inoltre, ribadisco, è importante che la si consideri come una sentenza che risponde ad esigenze semmai di adulti e non di minori».

Ribaltare la logica femminista

Di base, anche il discorso femminista andrebbe rovesciato: l’automatismo abolito del cognome paterno chiamava un uomo al riconoscimento pubblico e alla responsabilità nei confronti del figlio e della madre che l’aveva messo al mondo, “tant’è che il Codice Civile aveva assunto la prassi in un contesto storico in cui la donna entrava a far parte della famiglia del marito e l’acquisizione del suo cognome e della sua rilevanza sociale non era assolutamente percepita come una discriminazione. Contestare l’impostazione alla luce dell’evoluzione della società e sul piano dei diritti è un discorso, usarla come strumento per porre fine ad una società maschilista un altro».

Un ingenuo esercizio di piena libertà

Il rischio è una paradossale moltiplicazione dei conflitti, soprattutto alla luce del moltiplicarsi delle crisi familiari, separazioni e ricorsi a un tribunale per dirimere questioni relative alla fine di un rapporto di coppia, spesso con bimbi molto piccoli, «la riforma dell’attribuzione del cognome comporta in ogni caso cautele circa le forme e i tempi in cui i genitori possono manifestare contrarietà a una decisione presa di comune accordo prima della fine del loro rapporto di coppia, nonché sulle modalità di acquisizione dello stesso consenso. È facile immaginare che su una questione come la scelta del cognome non pesi solo la volontà dei singoli genitori ma anche quella dei rispettivi nuclei familiari. Sarebbe ingenuo pensare a un esercizio di piena libertà quando noi avvocati conosciamo bene il ruolo delle rispettive famiglie di origine nell’alimentare lo scontro tra genitori e le decisioni sui loro figli».

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