
Con Lele e Gigi. «Non avrei voluto essere in nessun altro posto al mondo»

Questa mattina sono stato al funerale di Raffale Tiscar, è sera ed ho ancora gli occhi provati. Lele Tiscar per me era una di quelle persone che per eccezionalità si contano sulle dita di una mano e sono molto grato per averlo conosciuto.
Nel 2003, terminata l’università e prima di sposarmi, come sai bene, mi sono trasferito in Brianza, terra di mia moglie Francesca. Nel periodo un po’ confuso che ho attraversato dopo il Clu (Comunione e liberazione universitari, ndr) e durante il primo impatto con il mondo del lavoro, ricordo bene un aspetto determinante in vista del matrimonio e della vita adulta, un aspetto che avevo già intravisto con grande curiosità nel periodo immediatamente successivo alla morta di Emilia Vergani, mentre noi eravamo ancora universitari e che è legato alla Comunità di Carate.
Come sempre accade le cose si chiarificano nel tempo. Ricordo che si stava con i grandi. Non c’era un distacco tra una generazione e l’altra, tra sessantenni e venticinquenni, me lo ricordo molto bene perché quel momento storico per me ha significato iniziare a vedere qual era la strada e cos’era una comunità del Movimento adulta, difetti inclusi. C’erano Giana e l’Ambrogina con la casa sempre aperta, Giangi con la sua Giuliana, Riga e l’Eugenia onnipresenti, Gerry e l’Emiliano, provocatori, con le rispettive mogli, l’infaticabile Angela alle prese con la CdO e mille iniziative ed altri, ciascuno impegnato, Giancarlo Cesana riferimento naturale per tutti, e in quel periodo c’erano qui assieme a loro anche i poco brianzoli Lele Tiscar e sua moglie Paola, a cui io mi ero affezionato; abitavano vicino a casa nostra.
Non ci siamo frequentati assiduamente (colpa mia) e in effetti non conosco neanche molto bene la loro storia nel precedente periodo toscano se non per sommi capi, eppure con loro mi sono sempre e da subito sentito a casa, voluto bene. Lele era una delle persone più intelligenti e acute che io abbia mai conosciuto. Riflessivo (era uno che ascoltava), introverso, capace anche di diventare scontroso, ma profondamente segnato ed affezionato al Movimento e alla sua storia, tanto da essere con la sua stessa vita convincente, per chi lo guardava, rispetto a Ciò che portava. Hai in mente quando una cosa è talmente vera che se tenti di spiegarla o analizzarla la stai già un po’ rovinando? Ecco.
Così nel giugno del 2004 gli ho chiesto di preparare le intenzioni per il nostro matrimonio, ne riporto qui solo una: «Benedici Signore ciascuno di noi qui presente a questa celebrazione e con lo stesso ardore con cui il Movimento ci ha raggiunto strappandoci al nulla e fa che commossi dal riaccadere qui ed ora della medesima esperienza di bellezza, giustizia e verità possiamo essere per il mondo intero il segno tangibile della Tua presenza misericordiosa».
È già stato scritto in questi giorni che Lele era un irrequieto, uno a cui certe cose stavano strette. Oltretutto, negli anni in cui l’ho conosciuto io, soffriva un po’ di essersi trasferito da una delle città più belle d’Italia ad un paesino della Brianza e probabilmente in questo mi ci sono anche un po’ riconosciuto. Paola, originaria delle mie parti, unica in cucina e grande gusto per le arti. Lele dedicato allo studio e a tutte le battaglie che, in pubblico o in sordina, ha condotto nel segno della sua appartenenza. Non so in realtà molto, se non per racconti indiretti, neanche della storia che negli ultimi anni lo ha portato in Cometa e alla esperienza dell’affido, ma evidentemente era molto contento perché, mosso dall’ossessione di non vivere una esistenza inutile, come oggi è riportato anche nella sua immaginetta, si sentiva qui particolarmente partecipe della costruzione del regno di Dio in terra.
Ricordo che un paio di anni fa, un sabato pomeriggio, ero andato a casa sua a Como a trovarlo per raccontargli del lavoro e chiedergli alcuni consigli. Quando gli scrivevo un messaggio lui rispondeva, sempre. Ogni tanto mi ritrovavo ad annotare sull’iPhone “chiamare Lele Tiscar”, uno di quei momenti in cui ti ricordi di aver bisogno di confrontarti con chi ti aiuta a crescere, a rimanere diritto, che si tratti di lavoro, di famiglia o di altre questioni serie della vita. Ricordo che a fine pomeriggio usciamo assieme, io per tornare a casa e lui per un qualche altro impegno, salutandoci gli chiedo «ma ce l’hai ancora la moto?», mi risponde «sì, ma non la uso mai, dovrei venderla…». Ti serviva per un ultimo viaggio.
In questi giorni ho partecipato a due funerali: quello di Gigi Amicone e quello di Lele, entrambi giustamente celebrati in magnifiche cattedrali. Durante quelle ore mi son sorpreso con un pensiero: non avrei voluto essere in nessun altro posto al mondo. In mezzo alla nostra gente, ai nostri amici, a casa e per un certo verso con una maggiore consapevolezza a riguardo di ciò che realmente conta nella vita.
È bello che ad entrambi i funerali abbiamo cantato assieme la canzone del Melograno di Chieffo:
«È da sempre che cerco la casa dove posso tornare
Devi dirmi dov’è, perché voglio venire anch’io
Fammi stare con te
Segui il raggio di luce e la luce ti porterà
Dove torna domanda il dubbio e rinasce il cuore
Nel giardino c’è Dio che ti aspetta e ti vuole parlare
Puoi sederti vicino, vicino ad ascoltare».
Francesco Cucco
* * *
Provo quasi imbarazzo a scrivere queste due righe dato che la mia amicizia con Luigino Amicone è di gran lunga più sbarazzina rispetto a quella che tanti amici in comune hanno condiviso con lui. Ancor di più se penso alla bellissima celebrazione del suo funerale a cui ho avuto la grazia di partecipare, dove si è potuto toccare con mano quell’«avvenimento del Dio che si è fatto uomo» citato dallo stesso Luigino nell’Equipe del Clu del 1978 in risposta a Giussani alla domanda «cos’è il cristianesimo per noi?». Ciò nonostante mi sento di usare questo strumento, mosso da una gratitudine e come possibilità di far memoria di qualcosa vissuto con lui che è destinato a durare.
Ho conosciuto Luigino meno di dieci anni fa tramite il mio amico Luca Frigerio (grazie Luca, che regalo è stato), impossibile non restarci attratto data la sua personalità, descritta in modo dettagliato nei numerosi e bellissimi contributi pubblicati sul sito di Tempi in questi giorni.
Quella iniziale “simpatia” mi ha spinto a chiedergli nell’agosto del 2016 di partecipare ad una cena a Rimini, desideravo che dei colleghi che avevo invitato per la prima volta al Meeting avessero la possibilità di abbinare ad una faccia tutto quello visto durante la giornata in fiera. Durante la cena avevamo messo sul piatto le nostre fatiche e paure di poliziotti impegnati su “strada”, i nostri sacrifici di giovani lontani migliaia di chilometri dalla terra d’origine, di persone normali che si ritrovano in situazioni molto più grandi di loro.
Luigino ci ha capito subito. Dopo averci ascoltato attentamente in silenzio per una mezz’ora esordì citando Pasolini con la nota poesia Il Pci ai giovani, dove il poeta nel ’68 dichiara di stare dalla parte dei poliziotti, che erano per lo più figli di operai e di contadini, e di essere invece contro gli studenti, che erano per lo più figli di borghesi (già, la borghesia, una delle grandi nemiche di Luigino).
La cena proseguì alla velocità della luce, dialogando sui concetti di giustizia, verità, amicizia…. ci sorprendeva che un giornalista, un uomo impegnato culturalmente e pubblicamente, stimasse in modo così vero e puro il nostro quotidiano tentativo di far del bene. E poi la raccomandazione finale, prima di lasciare il locale su gentile implorazione del cameriere visto che da quelle sedie nessuno aveva la minima intenzione di alzarsi, nel dirci che vedeva del fuoco dentro di noi, della gente viva con un grande desiderio e di fare in modo che quel fuoco restasse sempre acceso. Noi, che quel fuoco forse non sapevamo neanche di averlo, capivamo cosa intendeva, perché lo vedevamo ardere in lui. Quella raccomandazione è rimasta nel tempo un punto fermo tra di noi, diventati prima amici che colleghi. L’altro giorno nel comunicare a questi amici la notizia della sua morte, mi hanno sorpreso i messaggi che richiamavano i contenuti di quell’incontro che ho appena descritto, in modo esemplificativo uno di questi ha descritto Luigino «come il nostro primo collante».
Fortunatamente nel tempo ci sono state tante altre occasioni in cui ho condiviso esperienze con lui, ricordo la sua energia durante un momento in una vacanzina di Cl dove abbiamo tenuto insieme un incontro sulla Madonna Sistina di Raffaello vista dall’inviato di guerra Vasilij Grossman, o come quando l’ho chiamato in pieno lockdown per chiedergli di partecipare ad una chiacchierata su zoom tra amici tarantini sparsi per l’Italia dove anche dallo schermo trapelava la sua sete di verità sul tema “Ilva” (mi disse subito di si, tanto per lui o lo chiamava il Direttore di Rete 4 o l’ultimo degli scemi la risposta era sempre la stessa). E poi saltuariamente cene, telefonate e messaggi, l’ultimo il giorno del suo recente compleanno.
Vi confido che era dalla scomparsa di mia madre che non piangevo, forse la scomparsa di Luigino ha in qualche modo rincarato la dose di nostalgia delle cose che mancano di più.
Giorgio Romano
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Gentile direttore, mi permetto condividere con lei alcune riflessioni suscitate in me dalla morte di Luigi Amicone e Raffele Tiscar. Lo faccio in punta di piedi, non avendo conosciuto direttamente nessuna di queste due persone.
«Forse che il fine della vita è vivere? (…) Non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!»; «Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data?». Sempre mi tornano alla mente queste parole di Paul Claudel quando se ne vanno delle persone grandi. Persone che hanno testimoniato fino alla fine che la grandezza e la gioia della vita davvero non stanno nel “salvare capra e cavoli”, ma nel donarla con amore e con ardore. Non ho mai conosciuto personalmente nessuna di queste persone, eppure la loro scomparsa mi ha toccato profondamente, al punto da suscitare una certa invidia per delle vite che, lungi dall’apparire sistemate, non si sono risparmiate, cercando sempre di inseguire quell’ideale che già li aveva raggiunti.
Quando una persona scompare così all’improvviso siamo messi di nuovo prepotentemente di fronte alla nostra finitudine, che sempre cerchiamo di censurare, di non guardare, per quella strana follia che ci fa trascorrere le giornate pensando che “tanto ci sarà tempo”. E così, ancora una volta, queste vite donate mi richiamano a quello che mi ha insegnato don Giussani (un’altra persona a cui devo tutto, pur non avendolo mai conosciuto): “Troppo perde il tempo, chi ben non T’ama”. Non c’è altro tempo se non l’istante presente, non si può aspettare un altro momento opportuno se non quello di adesso per affermare dentro ogni cosa, di fronte a chiunque noi incontriamo, ciò che di più caro abbiamo nella vita, Cristo stesso. Tutti avvertiamo, più o meno consapevolmente, il desiderio che la vita non trascorra inutilmente, che sia piena. Vedere vite, come quella di Tiscar o di Amicone, che non hanno avuto paura di rischiare tutto per affermare e seguire l’ideale incontrato, è uno spettacolo che, dentro il dolore per la scomparsa, riempie il cuore e risuscita dal torpore in cui facilmente cadiamo, accendendo il desiderio di una vita vissuta all’altezza di ciò per cui è fatta.
Oggi in ogni ambiente, dentro e fuori la Chiesa, al lavoro, finanche nei rapporti personali, sembra non esserci scampo alla polarizzazione delle posizioni da una parte, dall’altra al timore di esporsi per ciò che si sente, per ciò che si è; forse vi è paura di dividere o ferire qualche sensibilità, forse, più profondamente, vi è paura di non essere (più) accettati; ad ogni modo le relazioni appaiono sempre più fragili, come tanti stanno notando. Ma proprio in questo contesto leggere i tantissimi messaggi pubblicati dopo la morte di Amicone svela qualcosa a cui non siamo più abituati a pensare, ma che dice la vera cifra della sua vita e del movimento cui apparteneva: dentro l’Ideale vissuto integralmente si può non aver paura ad entrare nelle circostanze (qualsiasi esse siano, dalla famiglia all’ambiente di lavoro, fino all’agone politico) per affermare, con forza e tenacia, ma anche con “ingenua baldanza”, l’incontro con Cristo e ciò che l’incontro con Lui suscita nel confronto con ogni aspetto dell’esistenza; e tutto questo genera una capacità di amicizia tanto desiderata (è ciò di cui, io penso, il mondo ha più bisogno) quanto impensabile. Un’amicizia senza calcoli, gratuita perché fondata sull’amore a Cristo, che permette di cogliere qualsiasi brandello di verità emerga in chiunque.
Verità e amicizia sono le parole, sempre più rare, a cui continuo a pensare da quando mi è giunta la notizia della morte di queste due grandi persone, che con il loro estremo sacrificio mi dicono: “Non ti preoccupare di come sei, del tuo temperamento e dei casini che hai. Quello che hai incontrato è tutto e il mondo ha bisogno di Lui! Lui ha bisogno di te, cosa aspetti a darGli una mano?”.
Spero di non essere stato inopportuno nello scrivere queste parole in un momento per molti così doloroso.
In fondo, sentendomi parte della stessa storia di queste persone non posso che dire grazie per questa estrema testimonianza che mi è stata donata. E arrivederci a lassù!
Mattia Fasana
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