
Con gli «abbracci» non si fermano i narcos in Messico

Dolore, senso di ingiustizia, impotenza, orgoglio. Sono tanti i sentimenti che si sono mescolati nel cuore delle centinaia di persone che il 22 ottobre, in Messico, si sono riunite nella città di San Andres Larrainzar per pregare sul feretro di don Marcelo Pérez. Il sacerdote gesuita era stato assassinato due giorni prima nella vicina città di San Cristobal de las Casas, nello stato meridionale di Chiapas, dove imperversano i cartelli della droga. Chi lo conosceva bene, sapeva che questo giorno sarebbe arrivato. Don Pérez era infatti famoso per il suo lavoro incessante a favore delle popolazioni indigene, degli agricoltori e della pace.
Sul suo capo, come aveva raccontato poche settimane fa lui stesso al giornale El Heraldo de Chiapas, era addirittura stata posta una taglia di centinaia di migliaia di pesos, pari a decine di migliaia di euro. «Per anni abbiamo insistito che il governo messicano avrebbe dovuto proteggerlo per via delle minacce che riceveva, ma non ci hanno ascoltato», ha scritto in un comunicato il centro per i diritti umani Fray Bartolome de las Casas.
«Lunga vita al prete dei poveri»
Don Pérez faceva parte dei maya tzotzil, un gruppo etnico degli altopiani centrali del Chiapas. Domenica aveva appena terminato di officiare la messa nella sua parrocchia di Cuxtitali e si stava dirigendo verso la chiesa di Guadalupe per recitarne un’altra quando due uomini hanno affiancato in motocicletta il suo furgone bianco, crivellandolo di colpi. Don Pérez è stato trovato insanguinato e riverso sul volante.
In una recente intervista il sacerdote gesuita aveva denunciato che «lo stato del Chiapas è sempre più in pericolo perché dominato dalla criminalità organizzata».
Don Pérez, pur consapevole dei pericoli che correva, aveva sempre scelto di stare vicino alla popolazione «perché lo Stato non fa niente, anzi, nega addirittura le violenze». Anche per questo centinaia di persone al funerale hanno intonato il coro: «Lunga vita a don Marcelo, prete dei poveri».
La guerra tra narcos in Messico
Da almeno due anni in Messico è in atto una feroce guerra tra i due più potenti cartelli criminali del paese: Sinaloa e Jalisco Nueva Generación. Per ottenere il controllo delle redditizie rotte della droga, del contrabbando e del traffico di esseri umani, che passano tra gli stati di Chiapas e Jalisco, i narcotrafficanti si combattono a vicenda.
In questa guerra, però, vengono presi in mezzo i civili messicani, spesso costretti a schierarsi per l’uno o l’altro gruppo di criminali. I residenti vengono anche obbligati a pagare il pizzo e chi si rifiuta rischia di essere rapito o ucciso. Anche per questo più di 600 abitanti del Chiapas sono fuggiti nel confinante Guatemala a luglio, senza che lo Stato facesse nulla per proteggerli. Il mese precedente, cinquemila messicani avevano abbandonato le proprie case, date alle fiamme dagli uomini armati.
Secondo alcune testimonianze di messicani rifugiati in Guatemala, i narcotrafficanti si posizionavano apposta dietro le case dei villaggi, utilizzando i civili come scudi umani negli scontri a fuoco.

La strategia «abbracci, non pallottole»
«Lo Stato dovrebbe trovare un modo intelligente per disarmare questi gruppi criminali», ha dichiarato il cardinale Felipe Arizmendi Esquivel. «Invece continuano a dire che in Messico va tutto bene. Questa strategia non ha funzionato».
Il riferimento del cardinale è alla politica inaugurata dall’ex presidente Andrés Manuel Lopez Obrador, o Amlo come lo conoscono tutti, denominata: «Abbracci, non pallottole». L’idea è che i cartelli della droga non vadano combattuti militarmente o con un aumento dei presidi di sicurezza, ma riducendo la povertà e aumentando i programmi sociali.
La politica degli abbracci, che si è rivelata un tragico fallimento, ha raggiunto livelli grotteschi ad aprile quando Amlo ha definito i narcotrafficanti «gente per bene che rispetta la cittadinanza. Gli attacchi avvengono fortunatamente soltanto tra i membri delle bande».
In precedenza, nel 2022, aveva detto che «noi dobbiamo prenderci cura anche della vita dei membri delle gang. Sono anche loro esseri umani». Nel 2023, dopo che un cartello aveva sequestrato 14 poliziotti, si era rivolto così scherzosamente ai responsabili: «Andrò a dire ai vostri padri e nonni che meritate una sculacciata».

Sheinbaum è peggio di Amlo
Amlo è stata una sciagura per il Messico e fortunatamente non è più presidente dall’1 ottobre, quando il più alto ufficio del paese è stato occupato da Claudia Sheinbaum. La socialista, femminista ed ecologista, già sindaco di Città del Messico, ha promesso di portare avanti l’eredità di Amlo, anche per quanto riguarda la modalità della guerra alla droga.
Non a caso, l’opposizione aveva definito Sheinbaum in campagna elettorale «la candidata dei narcos». Del resto, durante gli anni di Amlo al potere, il Messico ha toccato il record assoluto di morti per omicidio: 176.000 (in Italia nello stesso periodo ce ne sono stati 2.000, cioè l’8.700% in meno).
Strage di sacerdoti in Messico
L’inerzia del governo che si è ormai arreso alla violenza, unita all’impunità di cui godono i narcotrafficanti (il clamore mediatico attorno all’omicidio di padre Pérez ha portato all’arresto di un narcotrafficante, ma si vedrà come finiranno le indagini), fa di tutti coloro che provano a opporsi allo strapotere dei cartelli un bersaglio. Per questo così tanti sacerdoti vengono uccisi in Messico.
Prima di don Marcelo Pérez, era toccato a padre Isaías Ramírez González, il cui corpo è stato ritrovato il 15 agosto scorso sotto un ponte di Guadalajara, capitale dello stato di Jalisco. Nel maggio dello scorso anno era stato assassinato dopo la messa don Javier García Villafañe. Altri due gesuiti, due anni fa, erano stati uccisi sul sagrato della loro chiesa nello stato di Chihuahua.
In tutto, dal 1990, in Messico sono stati uccisi almeno 65 sacerdoti, 11 solo negli ultimi quattro anni.
«Continuiamo a costruire la pace»
Un bilancio pesante che testimonia l’impegno della Chiesa cattolica per fermare le violenze, mentre lo Stato sta a guardare. Come diceva padre Pérez pubblicamente durante una marcia per la pace il 13 settembre:
«Vogliamo mandare un messaggio forte e chiaro: la violenza non può più essere tollerata. Il popolo si solleva, la Chiesa si solleva di fronte a questa valanga di violenza e purtroppo il governo non fa nulla. Viviamo sotto la protezione di Dio, noi continuiamo a costruire la pace».
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