Come sono diventato Minniti

Di Giuseppe Alberto Falci
18 Aprile 2017
«Il punto cruciale di una democrazia è se tu domini la forza». Passioni, segreti e preoccupazioni del titolare del Viminale: «La parola serve per spiegare quello che hai già fatto, non quello che vuoi fare»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Nei lunghi corridoi del Viminale, tra silenzi e solennità, c’è la stanza del duro che difende la ragion di Stato. Chi è costui? Marco Minniti, va da sé. Il ministro dell’Interno, l’uomo del governo Gentiloni più gradito agli italiani, almeno stando agli istituti di ricerca di sondaggi. Lui non si scompone, piace a sinistra, al centro e a destra. Eppure non cerca il consenso, lavora ogni giorno in questa ampia stanza del Viminale come fosse l’ultimo. «Lo so benissimo – batte il pugno sulla scrivania – che domani può succedere una cosa che potrà cambiare la sorte. Ma solo così si costruisce la credibilità».

La televisione che si trova accanto alla luccicante scrivania è sempre sintonizzata su Skytg24, mentre sul personal computer scorrono le agenzie di stampa che lo aggiornano su ogni cosa. E poi c’è lui, il ministro, seduto, composto, abito scuro, camicia bianca, cravatta blu. «Questa, però, non è la scrivania di Mussolini», scherza. Dice così perché la scrivania del Duce diventò poi il soggetto di un irresistibile siparietto tra Minniti e Stefano Di Michele in Sali&Tabacchi, la trasmissione su Canale 5 di Elsie Arfaras. Al punto che Di Michele e Giuliano Ferrara corsero a palazzo Chigi per verificare a chi fosse stata attribuita la scrivania del Duce. «Poi Giuliano scrisse sul Foglio dicendo che siamo andati a vedere la scrivania di Mussolini, ce l’ha uno che non ha i capelli come il Duce, è in buone mani».

Oggi le buone mani sono divenute la certezza dell’esecutivo di Paolo Gentiloni. Ma come si diviene l’uomo della ragion di Stato? «Il meccanismo è il seguente – sospira Minniti –. Ho tutt’altra formazione, l’unico punto di congiunzione con la storia attuale è che finito il liceo Classico avrei voluto fare il pilota d’aereo». Non fa in tempo a pronunciare quest’ultima parola che il ministro indica una moltitudine di modellini di aeroplani, jet da combattimento di ogni foggia e colore, riproduzioni su scala, che poggiano su un mobile e che Minniti si porta in dote in ogni suo spostamento. La sua passionaccia, ripete con gli occhi che ricordano quegli anni, era «molto forte».

Schivo, il più possibile prudente, qualcuno osa dire al limite dell’autismo, «gelosamente difensore delle autonomie», consapevole però che andare all’accademia avrebbe significato rispettare una disciplina militare. Ma la sua passione per il volo era talmente vera che «mi portava a pensare di potere accettare». Il tutto lo preoccupava. D’altro canto, racconta che sua madre spesso ripeteva: «Una cosa che non bisogna fare con Marco è quella di dirgli che deve fare una cosa per forza».

Alla fine il giovane Marco prende un’altra strada e sceglie la facoltà di filosofia. Studi che lo portano ad appassionarsi alla filologia classica e ad occuparsi nel corso della tesi delle Georgiche di Virgilio attraverso i Grundisse di Karl Marx: «Solo un matto avrebbe potuto fare una cosa del genere. Stiamo parlando del’Opera più difficile di Marx, mica del Capitale». Tutto ciò lo divertiva perché quella tesi avrebbe rappresentato una sfida: «Virgilio era il poeta cortigiano, quello che spiegava la nuova epoca. Nella mente malata di Minniti non era così. Nel senso che invece Virgilio era il cantore di una società che stava scomparendo».

Da Ocalan a Amri
Dalla filosofia alla res pubblica il passo è stato breve, brevissimo. Quasi automatico. Da quando indossa i calzoni corti si iscrive alla Fgci. Poi l’incontro con Claudio Velardi, l’altro Lothar dal carattere completamente opposto al suo: «Io riservato, lui comunicativo. Io schivo, lui esuberante». I due sono inseparabili perché Velardi è stato mandato dal «partito» come commissario di Reggio Calabria: «Durante una discussione accesa nella 500 di mia sorella, Claudio cosa fa? Tira improvvisamente il freno a mano. Questo per far capire di che pasta fosse fatto».

minniti-ansaDi lì a poco Botteghe Oscure riserva al giovin Minniti un incarico delicatissimo. Il Pci lo nomina responsabile di zona della piana di Gioia Tauro («era una specie di scuola quadri»), dove avrebbe dovuto sorgere il quinto polo siderurgico. «Come succede spesso in Italia, è nato il porto, ma non il polo». Il contesto in Calabria non è facile. Sono gli anni del “bracciantato”, e Minniti perde un caro amico, Giuseppe Valarioti, ucciso dalla ’ndrangheta. La vicenda gli lascia il segno perché è lui a comunicare ai genitori di Valiaroti dell’omicidio: «È stata una delle cose più sconvolgenti della mia vita». Le ferite non lo scompongono. Il percorso appare segnato. In punta di piedi Minniti prende quota fra i giovani del gruppo dirigente comunista. «Il partito prima di ogni cosa».

La fine del Pci porta alla nascita del centrosinistra nelle sue varie forme. Ulivo, Unione, alcune delle sigle. Ma nel centrosinistra Minniti resta forse un caso più unico che raro. È l’uomo che più di tutti è stato al governo in questi anni: sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal 1998 al 2000, poi sottosegretario alla Difesa fino al 2001, poi viceministro dell’Interno dal 2006 al 2008, poi sottosegretario con delega ai servizi segreti dal 2013 al 2016, con Matteo Renzi, e solo dal dicembre scorso ministro dell’Interno. L’uomo della ragion di Stato attraversa tutti i governi e accresce la stima di compagni e avversari. Ma come è finito ad occuparsi di intellingence, sicurezza e immigrazione?

A fine ottobre del 1998 giura e diviene sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Il 12 novembre arriva in Italia Abdullah Ocalan, il cui caso gli viene affidato in dote. Il numero 12 si ripete ciclicamente nella sua vita politica, e non solo, quasi a voler segnar «il meccanismo» che lo porterà al Viminale. Infatti, il 12 dicembre del 2016 giurerà da ministro dell’Interno. Oltre ad esserci una simmetria nelle date c’è sempre un elemento «forte» all’inizio di una nuova esperienza. «Divengo sottosegretario nel ’98 e in Italia arriva Abdullah Ocalan. E subito dopo Ocalan, ci saranno le operazioni militari in Kosovo, per la prima volta l’Italia partecipa a una operazione bellica dopo la seconda guerra mondiale». Corsi e ricorsi storici. «Divengo ministro dell’interno nel dicembre scorso e il 23 catturano il terrorista Amri».

«Tu devi fare il filologo, non il filosofo»
Si compone così l’escalation dell’uomo della Ragion di Stato. Che non cambia mai registro. Che resta sempre concavo, senza mai divenire convesso. Che preferisce alle parole, i fatti. E che per certi aspetti a qualcuno ricorda Francesco Cossiga. Allora è lei il nuovo picconatore? «È stato un amico, come si può essere amici tra chi ha una certa distanza di età. C’è un episodio che lui stesso raccontò quando andai a casa sua a chiedergli di votare il sostegno al governo Prodi. Non ci crederete, ma il colloquio si svolse in bagno».

È stato dalemiano, veltroniano, e oggi renziano. Ma nessuno osa alzare il dito e accusarlo di essere un partigiano. Non è un uomo di cordata, è un solitario dalla nascita. Perché cambiano le stagioni ma l’uomo della ragion di Stato è sempre lì, stimato e adorato dai suoi e dagli avversari. Al Lingotto, ai primi di marzo, alla kermesse organizzata dall’ex premier Renzi, è stato il più applaudito. Come se lo stato maggiore del Pd renziano avesse voluto inviare un messaggio con il seguente sottotitolo: dopo Matteo toccherà a te, caro Marco. Non parlava in pubblico da quattro anni. «È tutto singolare – spiega con garbo – ho sempre avuto una passione per l’oratoria. Quella è una cosa che mi riusciva bene. Naturalmente era una passione che cozzava con il carattere».

Non ha un profilo Facebook o Twitter, centellina le uscite pubbliche. Non si ricorda una sua partecipazione a uno dei talk show tv che accompagnano le giornate politiche italiane. Per quattro anni, da sottosegretario con delega ai servizi segreti è rimasto in silenzio: «Sono la dimostrazione fisica della contraddittorietà, non sono mai andato in tv». Però, annota battendo il pugno sul tavolo, «ho una certa maestria con la parola e la so usare. Ho vissuto con le parole». Al punto da ricordare al cronista quando il professore di latino gli diceva: «Vedi Minniti, questa è una traduzione, tu devi fare il filologo, non il filosofo». Conosce il fascino e la complessità delle parole in virtù degli studi. E in questo periodo storico, in cui i tweet e i blog impazzano «il rischio è che le parole si consumino». Ecco perché, secondo Minniti, «la parola serve per spiegare quello che hai già fatto, non quello che vuoi fare».

Di certo c’è che il nuovo ruolo di ministro dell’Interno lo espone al paese: «Sono stati tre mesi di corsa, ma parlo solo se ho qualcosa da dire». Sa benissimo che quello in cui siede oggi è un ministero che ha «un ruolo politico». E proprio per questo motivo «se fossi uno che guarda il ministero dell’interno, mi aspetterei naturalmente che esso rassicurasse il paese». E qui c’è il messaggio di una sinistra novecentesca. Il Pci è stato un partito con il senso dello Stato: la funzione più importante della faccia, l’homo faber più importante dell’ars loquendi. Così in un percorso logico di una sinistra di Stato Minniti diventa una risorsa istituzionale. Una riserva che al momento opportuno il centrosinistra, e non solo, potrà spendere. Lui si schermisce e preferisce vivere in solitudine nell’attuale dicastero: «Penso sempre che oggi sia il mio ultimo giorno, naturalmente, dal punto di vista politico».

È la sua forza, cui di certo non se ne vorrà privare Matteo Renzi. L’ex segretario-premier che ha una storia politica lontana anni luce per studi e tradizione da quella di Minniti. Ma non importa perché per l’inquilino del Viminale, «Renzi è un riformista in grado di incarnare quel progetto». E poi scorrendo le vicende odierne non può non passare in rassegna la fuga di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, e di tutti i compagni che hanno lasciato il Pd. Ha sofferto l’uomo della ragion di Stato? «Sì – risponde abbassando il tono della voce – per un motivo semplicissimo». Quale? «Perché quelli sono stati gli amici di una vita. Dico amici e non compagni perché ritengo che amico sia un tantino più importante di compagno. Però vorrei dire una cosa: chi si è impegnato a fondare il Pd sapeva benissimo che la parola unità è la sua ragione fondativa».

Né fuoco né manganelli

Minniti preferisce uscire sempre dalle beghe di partito, dalla politica politicante. Lui è un uomo del fare. È colui che riesce a mantenere l’ordine anche in circostanze non facili. Come ad esempio, in occasione delle celebrazioni dei sessant’anni dei trattati di Roma. Si temeva il peggio. Il rischio black bloc era dietro l’angolo. Ma il piano da lui studiato e applicato ha trasformato il pericolo scontri in una giornata di festa. Nessuna bomba carta. Nessuna carica. Né fuoco, né manganelli. «La forza di una democrazia non è quella di impedire, ma di garantire a tutti la libertà di poter esprimere le proprie opinioni». Cala il silenzio. Minniti guarda negli occhi la sua ombra, il prefetto Colombrino. Poi spiega qual è il segreto di questi successi: «La presenza fisica è fondamentale. Io sono stato qui tutto il giorno, a seguire le immagini in tv. Non avevo un compito preciso. Ma sapevo che il fatto che ci fosse il ministro rappresentava per tutti una garanzia. Ciascuno così si sentiva le spalle coperte».

Il concetto che vuole esprimere Minniti è quello di uno Stato che non si scompone, non si frantuma. Da ciò passa il successo del ministro con il più alto indice di gradimento. In questi risultati quanto conta la conoscenza del mondo dell’intelligence? «C’è un legame molto forte. Qui hai la gestione della forza che si vede, lì hai la gestione della forza che non si vede. La forza deve essere dominata. Il punto cruciale di una democrazia è se tu domini la forza». Ma ci sarà una cosa che ha fatto per la ragion di Stato mal volentieri? Minniti ci pensa, si ferma un attimo, ed aggiunge: «Le dico la verità: non è mai successo. Altrimenti chi mi conosce sa benissimo che mi alzo e me ne vado». E se non lo si fosse compreso l’uomo della ragion di Stato lo ripete un’altra volta: «Se c’è qualcosa che non convince io mi alzo e me ne vado».

@GiuseppeFalci

Foto Ansa

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