
Com’è dura l’apertura per l’Iran

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il 19 maggio scorso, con l’elezione diretta a presidente della Repubblica di Hassan Rohani, il popolo iraniano ha scelto con convinzione di proseguire nella politica di apertura all’Europa e all’Occidente. Gli abitanti della Repubblica islamica hanno infatti tributato un vero e proprio plebiscito a favore del presidente uscente, al termine di una campagna elettorale tutta giocata sulla paura di un ritorno all’epoca delle sanzioni.
Rohani ha vinto con una percentuale molto alta, il 57 per cento, ottenendo la fiducia di oltre 23 milioni di elettori, distanziando notevolmente il suo principale avversario, il candidato conservatore Ebrahim Raisi, che ha ricevuto il 38 per cento dei suffragi. Secondo la professoressa Amani Razie, docente universitaria, giornalista e redattrice del canale in lingua italiana della radiotelevisione di stato iraniana Irib, contattata da Tempi, questo successo così imponente è dovuto ad almeno due motivi: «Innanzitutto Rohani ha condotto una campagna elettorale molto efficace. Certo molti elettori ne appoggiavano il programma di apertura nei confronti dell’Occidente, ma almeno un terzo di coloro che lo hanno votato si sono lasciati convincere dalla sua propaganda, molto dura nei confronti degli avversari. Egli è stato capace, infatti, di suscitare un fortissimo sentimento di paura nel paese, facendo intendere che, qualora lui non fosse risultato vincitore, non solo sarebbero tornate le sanzioni, ma avrebbe preso consistenza la possibilità di una guerra. Riferendosi agli avversari, lo slogan preferito da Rohani e dai suoi sostenitori è stato “Alzeranno i muri se vinceranno!”, lasciando intendere che un’affermazione di Raisi avrebbe condotto a un irrigidimento della legge islamica. La gente gli ha creduto e “la zona grigia” dell’elettorato si è sentita minacciata».
La seconda ragione che ha favorito l’affermazione di Rohani va cercata secondo Razie nella debolezza del suo antagonista: «Raisi è alla guida di una delle fondazioni non governative più ricche del paese e di tutto il mondo islamico, ma non è mai stato una figura politica di primo piano. È stato travolto dal vigore propagandistico del presidente, non possedendo né la capacità dialettica, né il carisma di un Ahmadinejad o di altri leader conservatori». Per Razie i 17 milioni di iraniani che lo hanno votato sono quasi un miracolo e vanno considerati i «fedelissimi della Repubblica islamica».
Se i sauditi alzano la cresta
Dunque più che la soddisfazione verso l’operato dei primi quattro anni di mandato, è stata l’assenza di un’alternativa credibile a portare Rohani alla vittoria. In effetti i benefici tanto attesi dalla sua politica di apertura ancora non si sono fatti sentire. «La situazione economica in Iran è notevolmente peggiorata in questi anni e l’inflazione è aumentata a dismisura», spiega a Tempi la giornalista di Irib. «Contestualmente molte misure a sostegno dei ceti più poveri, introdotte da Ahmadinejad, sono state revocate, peggiorando le cose. Forse qualche beneficio lo hanno conseguito i nostri finanzieri e le grandi compagnie industriali, ma le persone comuni aspettano ancora di ricevere la loro parte dagli accordi economici e commerciali con i paesi europei».
L’incertezza regna sovrana. Subito dopo la rielezione, Rohani è stato costretto a cambiare radicalmente il tono dei suoi discorsi, investito dalle parole incendiarie di Trump in Arabia Saudita davanti a decine di capi di Stato arabo-sunniti. Dice Razie: «La gente è disorientata. Dopo aver “urlato” la sua volontà di distensione, non capisce perché il presidente americano abbia fatto delle affermazioni davvero senza precedenti, definendo l’Iran come la principale minaccia per la sicurezza del Medio Oriente e del mondo. Tutto questo è reso ancora più grave dal fatto che Trump parlava al fianco del re saudita Salman, nostro principale nemico, il quale ha dichiarato che “Washington e Riyad marceranno insieme contro il terrorismo e contro l’Iran”».
A Teheran la nuova coalizione antiterrorismo di Trump appare come una Nato araba in funzione antipersiana, i cui effetti disastrosi si sono fatti già sentire in Bahrein, dove la popolazione a maggioranza sciita ha subìto una dura repressione in questi giorni da parte del regime sunnita filosaudita, e potrebbero presto ripercuotersi sullo scacchiere siriano ai danni dell’“Asse della Resistenza” Assad-Hezbollah-Iran, la cui alleanza con la Russia di Putin, secondo Razie, «reggerà solo se continuerà a convergere con gli interessi strategici di Teheran», mentre precari, nonostante gli sforzi profusi nei negoziati di Astana, rimangono i rapporti con la Turchia, a causa della volubilità di Erdogan.
Grandi opportunità sfumate?
Travolto da un contesto che smentisce la sua narrazione elettorale, Rohani ha dovuto cambiare atteggiamento, mostrando il muso duro ai suoi interlocutori americani, in particolare sul tema dello sviluppo del nuovo sistema missilistico: «L’Iran non ha bisogno dell’autorizzazione degli Stati Uniti per condurre test balistici», ha dichiarato il 22 maggio, rispondendo a Trump e al suo segretario di Stato Rex Tillerson che ne pretendono l’interruzione. E mentre l’America conclude l’accordo per la fornitura di 110 miliardi di dollari a Riyad e garantisce altri 75 milioni di dollari di aiuti alla realizzazione del programma missilistico israeliano, l’Italia e le altre nazioni europee, assieme al popolo iraniano, restano in attesa di capire se sarà possibile sfruttare appieno le grandi opportunità offerte dal mercato persiano che la fine del regime sanzionatorio aveva lasciato pregustare.
Foto Ansa
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