
Lettere dalla fine del mondo
Come avrebbe fatto Dio a realizzare queste opere di carità senza farmi sperimentare il dolore e la disperazione?
Ho diciotto anni, ho una famiglia che mi vuole un bene assurdo e amici fantastici. Sono sempre stata considerata da tutti (professori inclusi) una ragazza molto più matura rispetto ai suoi coetanei, ricevo complimenti per come affronto la vita, per come mi butto nelle situazioni e per la mia capacità di vederLo anche nelle situazioni più difficili. Sento, respiro un mondo di bene intorno a me, eppure mi odio e vivo con la preoccupazione di dover dimostrare a me stessa che valgo qualcosa. Purtroppo questa situazione è esplosa, e da circa un mesetto ho iniziato un percorso di cura con uno psicoterapeuta. Sto prendendo pure un blando tranquillante per dormire. Però le cose stanno andando sempre peggio. Non mi merito nulla, perché tutti mi vogliono così bene? Non mi merito di aver incontrato Cristo. Sono arrivata a dire che non merito neanche l’amore di Dio. Perché non riesco a guardarmi come Lui mi guarda? Che fatica, padre Aldo, non riesco nemmeno a pregare. Cosa posso fare per abbracciarmi?
Beatrice
Cara Beatrice, grazie per la libertà che testimoni condividendo il dramma che vivi e ponendomi delle domande alle quali solo Dio può rispondere – e Dio risponde attraverso l’abbraccio di chi ti vuole veramente bene, cioè di chi ti aiuta a fare i conti con la realtà. Spesso racconto quanto successe con don Giussani durante uno dei peggiori periodi della mia vita. Ero disperato e le domande che poni erano sostanzialmente le mie. Camminando a tentoni sono arrivato da lui con gli occhi umidi per il pianto. Ricordo con quanta tenerezza mi guardava e ascoltava. Davanti alle mie domande disse: «Ciò che stai soffrendo, il buon Dio lo permette perché tu possa finalmente diventare un uomo per il quale Cristo è tutto». Non capivo niente delle sue parole, ma quando aggiunse «la prossima estate, se non incontrerai qualcuno che ti faccia compagnia, verrai con me», il mio volto si illuminò.
Così mi consegnai totalmente a lui. Mi sentivo libero al suo fianco, libero come un bambino. Non c’erano ossessioni, scrupoli che non condividessi con lui. Quanta pazienza ha avuto con me! Spesso annegavo in un bicchiere d’acqua e lui mi tirava fuori, aiutandomi ad aprire gli occhi sulla realtà. Quante volte nella disperazione mi domandavo dov’era Dio, o cosa significasse essere scelto, amato da sempre. Perfino con la Madonna mi arrabbiavo: «Vergine e Madre, perché non mi ascolti liberandomi da questo inferno che mi tortura?». Ricordo che feci a bordo di una Uno ventimila chilometri, mendicando la guarigione da un santuario all’altro. Gridavo, ma non sentivo nemmeno l’eco della mia voce.
Forgiati come il ferro
Solo dopo quindici anni ho capito il perché del silenzio della Madre Celeste. Dio mi aveva scelto per un compito molto importante, che oggi è sotto gli occhi di tutti. La Madonna non poteva impedire a Suo Figlio il percorso mediante il quale mi avrebbe purificato per essere totalmente suo. Oggi mi è chiaro il perché di tanto dolore: come avrebbe fatto Dio a realizzare queste opere di carità senza avermi fatto sperimentare cosa significa il dolore e anche la disperazione?
Avrebbe potuto scegliere un altro più intelligente, coerente, migliore di me. Ma ha scelto me. Sono convinto che Dio, scegliendo una persona per un compito, la forgia come il fabbro con il ferro. La notte dell’anima è un’esperienza necessaria all’uomo di fede. È la stessa esperienza che ha vissuto Gesù negli ultimi giorni della sua vita. Facendo memoria di quanto ha sofferto dal Getsemani alla Croce, mi vengono i brividi. Tutti Lo hanno abbandonato. Eppure, sebbene angosciato dal silenzio degli amici e del Padre, prega dicendo: «Sia fatta la tua volontà, non la mia». Un puro atto di fede al quale tutti siamo chiamati.
Non è quindi una questione di merito, ma di abbandonarci fra le braccia del Padre che ci ha pensato dall’eternità. Se abbiamo un merito è quello del peccato che obbligò il Padre a mandarci Gesù.
Infine, mi permetto di sottolineare che educare non significa pompare come un pallone figli o alunni, ma introdurli a fare i conti con la realtà in tutte le sue dimensioni. Perché dimenticare la favola di Fedro “Rana rupta et bos”?
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