
Colloqui Israele-Palestina. Panella: «Il sessantesimo piano americano di pace non ha alcuna possibilità di riuscita»
A gennaio i colloqui di pace Israele-Palestina stavano «facendo progressi» secondo il segretario di Stato americano John Kerry. Sono passati due mesi da allora e la trattativa per un accordo definitivo fra governo israeliano e Autorità palestinese non sembra aver prodotto alcun risultato. Ieri Kerry ha avvertito Israele che una rottura dei negoziati rischierebbe di favorire i boicottaggi commerciali nei suoi confronti. In risposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito i tentativi di boicottaggio «immorali e ingiusti», altri esponenti del governo hanno liquidato le parole di Kerry come attacchi «offensivi» e «intollerabili».
«Queste parole lasciano presagire poco di buono», spiega a tempi.it Carlo Panella, firma del Foglio ed esperto di Medio Oriente. «I colloqui sono in stallo perenne e il sessantesimo piano americano di pace, voluto dall’amministrazione Obama, non ha alcuna possibilità di riuscita».
Le tre questioni sul tavolo dei negoziati sono: confini, status dei rifugiati palestinesi e sovranità su Gerusalemme. Perché non si riesce ad arrivare a una posizione di compromesso?
C’è un problema che viene ancora prima della capacità di arrivare a un compromesso. I colloqui non produrranno nessun risultato perché non c’è alcun interlocutore palestinese a cui Israele si può rivolgere. Il campo palestinese è diviso in due: da una parte l’Autorità nazionale palestinese presieduta da Abu Mazen, che controlla la Cisgiordania, dall’altra Hamas, che controlla Gaza. Attualmente la trattativa avviene fra Anp e Israele. Abu Mazen, anche se può essere definito un politico capace, non è un’autorità valida politicamente. Non ha il sostegno dei palestinesi e se andasse alle elezioni quasi certamente le perderebbe. Allo stato attuale non è possibile sanare la guerra civile fra Hamas e l’Olp, il partito di Abu Mazen. E anche se così non fosse non avrebbe senso firmare un accordo con Ramallah, per la Cisgiordania, che non riguarda l’intera Palestina, compresa Gaza.
Oltre a questa divisione interna tra palestinesi cosa pregiudica il raggiungimento di un accordo?
Uno dei problemi è la folle pretesa palestinese, avallata dall’Onu, che ritornino non solo i profughi delle guerre di Israele ma anche i parenti. Il secondo è il riconoscimento dello Stato di carattere ebraico chiesta ai palestinesi e basato sulla divisione dei due Stati: uno palestinese, uno ebraico, come prevedeva il meccanismo inglese del 1948. Questo non si può fare perché mai Hamas, con la sua ideologia intrisa di fanatismo religioso, potrà accettare che la terza città santa dell’Islam sia sotto sovranità di uno Stato ebraico.
Rimane aperta la trattativa sugli scambi territoriali.
Un problema estremamente delicato. Si intende farla nel rispetto dei cosiddetti confini del 1967. Però quelli non sono mai stati veri confini, ma soltanto delle linee arbitrarie d’armistizio create dopo la guerra dei Sei giorni. Nei fatti non c’è mai stato un confine interno a Israele. Volersi legare a quella separazione è una pretesa ardita che non ha pregnanza nel diritto internazionale. Inoltre costringere gli ebrei a lasciare le proprie case nel territorio palestinese peggiorerà solo la situazione.
In che senso?
Un esempio è fornito da un episodio recente che ha coinvolto l’attrice Scarlett Johansson. Lei ha difeso una sua collaborazione con una ditta israeliana, la Soda Stream, che ha una fabbrica nei territori palestinesi ed ora è vittima del boicottaggio anti-israeliano. Quell’azienda dà lavoro a centinaia di palestinesi e fornisce uno stipendio “occidentale”. Se dovesse andarsene da lì, nessun arabo sarebbe disposto a investire sul territorio con un capitale in grado di sostituire quello israeliano. Lo ha dimostrato il ritiro dei coloni da Gaza, otto anni fa. Fino al 2006 la “Striscia” aveva un tasso di crescita superiore al 10 per cento all’anno. Da quando gli ebrei se ne sono andati, cosa ha prodotto Gaza? Soltanto terrorismo.
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