Coccia (Federcoopesca): «Sos al ministro. Il comparto perde occupati mentre crescono i consumi»

Di Chiara Rizzo
05 Giugno 2013
A causa delle norme europee troppo restrittive, la Calabria chiede lo stato di emergenza per i pescatori. Ma analoghi problemi si vivono in tutta Italia: «Le norme sono sbilanciate sulla tutela dei pesci»

In Calabria è stato chiesto lo stato di crisi per la pesca a causa di norme europee troppo stringenti per il settore. La richiesta è stata rivolta dall’assessore regionale all’Agricoltura, Michele Trematerra, alla Commissione politiche agricole. «Si tratta di un problema che nasce da norme troppo sbilanciate nella tutela dell’ambiente e del patrimonio ittico» spiega a tempi.it il presidente di Federcoopesca, Massimo Coccia, che a sua volta ha lanciato in questi giorni un sos al ministro delle Politiche agricole, Nunzia De Girolamo.

Presidente Coccia, cosa succede in Calabria?
Premetto che quella è una zona particolarmente vivace, ma va detto che abbiamo dei seri problemi per la pesca del tonno e del pesce spada a causa di una normativa europea troppo stringente, che crea forte tensione sociale in alcune zone, perché queste specie sono state da sempre essenziali nell’economia di quelle regioni. L’Unione europea ha avuto nelle sue norme, da una decina di anni a questa parte, un approccio di tipo conservativo e soprattutto, anche in assenza di dati certi, troppo sbilanciate sull’ambientalismo e sulla conservazione del patrimonio ittico. La pesca del tonno è regolamentata da quantitavi precisi ,fissati dall’Ue e da un organismo internazionale di tutela della specie, l’Icaat. Un altro quantitavo, più ridotto, è fissato per la pesca accidentale di tonni. Oltrepassati questi limiti, anche se il pesce è morto e non può essere rigettato in mare, il tonno non va venduto. È chiaro che scattino i malumori dei pescatori.
Si aggiunge il problema della pesca di pesce spada, che nella zona calabrese avviene da secoli con le famose spadare, reti lasciate nel mare in cui i pesci finivano dentro, e che sono state messe al bando per proteggere i delfini (che vi finivano in via accidentale). Il pesce spada si pesca anche con gli ami e questa modalità, fino a qualche anno fa, era libera. Ora, invece, è stata regolamentata con limitazioni assai stringenti, con uno stop forzato di qualche mese. C’è poi un terzo motivo di tensione tra i pescatori che usano le cosiddette “ferrettare” (reti che somigliano alle spadare), che sono state tradizionalmente usate anche da molti siciliani delle isole eolie: ora l’Ue codifica in modo molto rigido una serie di pesci che non vanno presi con questo strumento, sebbene siano specie commerciabili.

Quindi?
Quindi ci troviamo di fronte ad un groviglio di regole che vanno a colpire tradizioni e commerci secolari. In provincia di Reggio Calabria ci sono stati molti tentativi degli assessori locali di sostenere i pescatori, ma, trovandoci di fronte a regolamenti comunitari, alcune norme non sarebbero modificabili nemmeno da un ministro. L’impossibilità di cambiare la situazione crea una sorta di pentola a pressione. Andrebbe comunque spiegato ai pescatori che occorre tempo, perché la situazione non dipende dal nostro Governo. Noi di Federcoopesca abbiamo contrastato finché abbiamo potuto queste decisioni a Bruxelles, ma ottenendo pochi risultati.

Quali altre zone vivono questo problema, in particolare per la pesca di tonno e pesce spada?
Sicilia, Calabria, bassa Campania. Per quanto riguarda la pesca del tonno, invece, il problema è generale, e riguarda anche la Sardegna.

Avete lanciato un sos al ministro De Gerolamo, perché in tutta Italia sono rimasti attivi solo 13 mila pescherecci che danno lavoro a 28 mila persone. Nell’ultimo decennio sono stati persi 17 mila posti di lavoro e la redditività delle imprese ittiche è diminuita del 31 per cento. Perché?
Il regolamento comunitario che riguarda il Mediterraneo parte da un’ottica giusta, che è quella di salvare il pesce. Ma va detto che nel Mediterraneo non si affacciano solo paesi comunitari. In particolare, l’Italia proiettata al centro di questo mare, per secoli ha usato determinate tecniche. Invece le regole comunitarie hanno, di fatto, mirato costantemente alle flotte. Prima hanno chiuso il numero delle licenze e quindi ridotto il numero di imbarcazioni che possono pescare, poi hanno erogato incentivi per quelle che volevano dismettere l’attività e sono stati interrotti gli incentivi per il rinnovo della flotta. Così molti imprenditori, anziché lasciare la flotta ai figli, hanno preferito ritirare l’incentivo e lasciare tutto. Mentre diminuiva il numero di pescatori, è aumentato di molto il consumo di pesce. Il risultato è che è aumentata l’importazione. Più di due terzi del pesce sulle nostre tavole è di importazione, perché noi non riusciamo a produrlo, non perché manchi il mercato. Abbiamo un’abbondanza di pescato di pesci poveri, come acciughe e sardine che insieme ai molluschi esportiamo ma la maggioranza del pesce da ristorazione arriva dall’allevamento o dall’export del mare del Nord e di altri paesi del Mediterraneo non comunitari (un esempio è la Croazia, che comunque da luglio entra nell’Ue). Il problema della pesca non è certo solo italiano, ma stiamo cercando di valorizzare il nostro pescato. Lo abbiamo fatto con la campagna dell’etichettatura dei pesci italiani, poi lavorando per diffondere la cultura del nostro prodotto anche a livello gastronomico. È poco, ma è ciò che possiamo fare.

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