Cl 60 anni dopo. Ecco come raccontava don Giussani gli inizi di Comunione e Liberazione: l’amicizia è il nostro statuto

Di Renato Farina
26 Ottobre 2014
La nascita del movimento, i rapporti con le autorità ecclesiastiche, la crisi del 1968 e la preoccupazione egemonica

I primi di ottobre del 1954, sessant’anni fa, don Luigi Giussani salì i tre gradini del liceo Berchet. In questi giorni, con tanti altri, fuori dalle porte delle chiese abbiamo venduto il numero di Tracce, rivista ufficiale del movimento di Comunione e Liberazione, che ha in allegato il dvd La strada bella: un video per i sessant’anni di Cl. La copertina del mensile dice: “Che cosa è Cl?”. Chi crede di sapere, dimentichi. Apra quel dvd di Roberto Fontolan e Monica Maggioni e ascolti, guardi i volti degli ergastolani di Padova o delle donne spaccatrici di pietra a Kampala. Ho trovato una mia intervista della quale don Giussani non ha controllato il virgolettato. Ma il nastro è autentico. C’erano altri testimoni autorevoli intorno a me.

tracce-cl-strada-bellaEravamo nella sala B di via Porpora, sede di Cl, sotto un grande ritratto fotografico di papa Wojtyla. Avevo l’incarico, che poi ho abbandonato e Dio sa quanto ho sbagliato, di scrivere la storia di Comunione e Liberazione. Questo testo l’ho riprodotto in un libricino di quasi dieci anni fa. Ma non se n’è accorto nessuno. Potevo accedere in ogni momento allo studio di don Giussani, dove lavorava e riceveva senza soste, avvolto in una nuvola da sigaro toscano. È la stessa scrivania di legno scuro, da Brianza anni Trenta, dove mi risulta riceva ancora oggi don Julián Carrón, il successore. Don Giussani mi faceva sedere e mi offriva del Porto. Era il 10 giugno del 1996.

Quando inizia questa cosa che poi prende il nome di Comunione e Liberazione?
La nascita di Cl è quando, guardando il piede che andava sull’altro gradino del liceo Berchet di via Commenda a Milano, in quell’ottobre del 1954, dicevo: «Ma per cosa vengo qui?». Per Lui, dal primo istante. Perché davanti a Dio posso aver fatto tutto sbagliato, ma non sarebbe vero che io abbia fatto una cosa non per questo.

Quando, per la prima volta, hai detto dentro o fuori di te: «Questo è un movimento, una creatura, un figlio», o qualcosa del genere?
Mai! Dico mai perché è stato mai. È un problema che non mi sono mica posto. Era ovvio: quando ho visto per la prima volta a Varigotti quei 350 che eravamo, era l’identica sensazione di quando quella prima volta ho radunato i sei o sette del Berchet per uno dei primi raggi. E i novemila dell’altro giorno (si riferisce alla giornata di fine anno del giugno 1996 al Palatrussardi, nda) non mi dicevano di più. Cioè, dicevano di più della stessa cosa: non di ciò che avveniva sotto i nostri occhi, ma di ciò che era avvenuto con la grazia di Dio. Speriamo di avere buoni vescovi, che ci aiutino di più a far pesare nella Chiesa la grazia che abbiamo ricevuto noi. Per questo bisogna pregare la Madonna, specialmente in questi tempi che sembrano buoni da questo punto di vista, perché ci dia la grazia, anche se non la meritiamo, di vescovi veramente generati e generatori dell’esperienza del movimento.

La storia dei tuoi rapporti con l’autorità ecclesiastica…
Bellissima!

Ma durante la crisi, hai mai pensato di rivolgerti all’autorità romana, magari attuando un rapporto diretto e immediato col Papa?
Mai! Mai, non mi è neanche venuto in mente. Come avrei fatto a osare, io, mettere in mezzo Roma? Se son rose, fioriranno.

La prima volta che sei entrato in contatto con Roma, come è accaduto?
Roma ha cercato il rapporto con noi. L’ha testimoniato il cardinal Giovanni Benelli l’ultima volta che ho mangiato con lui a Firenze. Io ero seduto alla sua sinistra, e mi ha detto: «Senta, le dico una cosa che non ho mai detto a nessuno. Una volta Paolo VI mi ha chiamato e mi ha detto: “Guardi per favore a Cl. Non abbiamo mai fatto attenzione a questo movimento, ma non lo perda di vista”». Allora mi sono ricordato dell’impressione che ho avuto un giorno quando mi è arrivata una notizia dalla nostra segreteria: mi chiamava la Segreteria di Stato. La Segreteria di Stato! Io vado, e penso: «Chissà che ramanzina!». E Benelli, allora sostituto segretario di Stato, mi ha ricevuto immediatamente e mi fa: «Allora, mi racconti un po’, come va Cl?». E io: «Benissimo. Ma ha qualche cosa da dire?». «No, non ho nulla da dire, anzi, il Santo Padre si interessa molto a voi». E basta. Da allora, ogni 4-5 mesi, mi chiamava.

Era il 1974? Perché quello è l’anno in cui – secondo la testimonianza che ho raccolto da monsignor Girolamo Grillo, arcivescovo di Civitavecchia e allora in Segreteria di Stato – Paolo VI riceve Benelli e lui dice accorato, a proposito di Cl: «Ci restano soltanto loro!».
Questa fu la malinconica conclusione della constatazione del vuoto che ebbe attorno a sé in Piazza San Pietro. Ma quello cui si riferisce Benelli accade prima. Prima del referendum sul divorzio. Pochi giorni prima c’era stato un raduno in San Pietro. E a un certo punto Paolo VI ha visto un cartello: “Clu Firenze”. Allora ha fermato il suo corteo e ha detto: «Ecco il Clu di Firenze. Bravi, siete proprio fedeli a quello che la Chiesa ha sempre insegnato. Salutatemi il vostro fondatore Giussani». Questa fu l’unica volta che un nome fu fatto all’interno di San Pietro. Così scopersi di essere fondatore.

Prima non ti era mai venuto in mente?
«Ma va’. Però c’erano stati due momenti in cui fui considerato in questo modo, un po’ come un fondatore. Capitò quando monsignor Costa, capo di tutta l’Azione Cattolica italiana dal quale eravamo andati a congratularci (primi anni Sessanta, nda), disse: «Eh, bisogna stare attenti, bisogna sempre rispettare il ruolo dei laici». In quel momento suona il telefono, non so chi fosse, ma lo sento dire: «No, quel ministro no! T. agli Esteri sarebbe un delitto! Io ne farei piuttosto un altro per documentare la non ingerenza della Fuci (la Federazione degli universitari cattolici italiani, nda)». Ma il picco è stato con il cardinal Giovanni Colombo. Lui è il paradosso incarnato. Glielo ha fatto notare Giacomo Biffi: «Guardi, eminenza, non può negare che tutto quello che lei ha detto, l’unico ad averlo preso sul serio è stato don Giussani. Fino a quando ha ripetuto quello che diceva lei, tutto andava bene. Ma quando poi ha cominciato ad affermare le sue idee in pratica, ha avuto come ribrezzo, e non poteva sopportarle». E queste parole di Biffi mi ricordarono come qualche mese prima il cardinale mi avesse chiamato e mi avesse detto: «Senti, Giussani, i tuoi superiori ecclesiastici sono contro Cl». «Mi spiace», gli dissi io. «Perché, vedi» proseguì, «siete buoni, siete giusti, siete generosi, sacrificati, però dove arrivate disturbate». Allora io, che ho avuto un istante di ictus: «Ma si disturbano anche coloro che dormono». Lui ha fatto un suo tipico cenno col capo, faceva sempre così, e poi: «Insomma, secondo i tuoi superiori tu dovresti chiudere Cl». Mi ricordo che con tranquillità gli risposi: «Eminenza, se lei mi dà un ordine e se ne assume tutta la responsabilità – tutta – e perciò mi comanda di chiudere Cl, entro un’ora tutte le comunità di Cl sapranno che non devono più esistere come Cl. Ma se lei lascia un millimetro di spazio alla libertà della mia coscienza, a quel che vede la mia coscienza… la mia coscienza vede che questa è la cosa più bella che ci sia nella Chiesa adesso, nella vita della Chiesa di adesso, perciò io continuerò. Tocca a lei dirmi: ti comando, oppure no». Tacque, e io andai avanti. Chi tace, acconsente. Ma avrei obbedito all’istante, sul serio.

Enrico Bartoletti, il vescovo segretario della Conferenza episcopale. Viene dopo, ma fu un momento importante, no? Esiste un diario in cui Bartoletti parla dell’input che ebbe da Paolo VI perché Cl fosse accolta come si deve nella Chiesa italiana.
Ci furono due conversazioni, una di fila all’altra. La prima di me, da solo con lui, a Roma. Bartoletti mi fece delle domande, io risposi secondo l’entusiasmo che avevo addosso. Lui non arguì niente e disse: «Bene, bene, coraggio». Mi mandò via con questa parola: «Coraggio!». La settimana dopo, parlò a un gruppetto: Negri, Scola, Sante Bagnoli (fondatore di Jaca Book, nda), io non c’ero, ma lo stesso Negri ha raccontato di una sua frase che è la più bella della nostra storia: «Forse una realtà come la vostra», disse Bartoletti, «non ha bisogno di uno statuto, perché è la vostra amicizia il vostro statuto. Non avrei mai creduto che si potesse fare un’organizzazione così stretta e così impavida e così sicura solo per amicizia». Ecco, questo può essere il punto per spiegare cos’è l’amicizia.

Questi episodi segnano il momento in cui il Papa dice: «Mi resta solo Comunione e Liberazione». È il momento in cui dai un giudizio molto duro su questi anni più o meno ideologici. Quelli erano gli anni dell’egemonia, della preoccupazione egemonica.
Ma l’egemonia aveva entusiasmato anche me! La gloria di Cristo è qualcosa che è nella storia, perché un minuto dopo la fine della storia non c’è la gloria di Cristo, c’è la gloria di Dio. Comunque la storia di Cl non è la storia di un’ideologia che procede per blocchi, così come non lo è la storia della Chiesa. Perché è come il sole che durante il giorno si ingrandisce, la luce si ingrandisce. È la stessa cosa: così è il piccolo punto luminoso all’orizzonte, e poi è il sole di mezzogiorno. È lo stesso. La questione dell’egemonia è andata così. Io ero inizialmente entusiasta delle posizioni di Angelo Scola e Rocco Buttiglione sull’egemonia. Poi non fu una negazione di questo che condusse avanti le cose. Fu uno sguardo sempre fisso alla stessa cosa, che man mano che il tempo passava diceva altre cose. E questo ha chiarito anche il problema dell’egemonia.

Hai detto, un giorno, che senza che tu lo potessi prevedere, senza la tua paternità consapevole, un gruppetto di universitari ha ripreso la mossa del tuo ingresso al Berchet. È la prima volta che ti capita di riconoscere questo riaccadere dell’esperienza in termini così vasti senza che fossi tu a comandare esplicitamente le danze? O forse c’eri?
C’è stato un fatto particolarissimo: il ballo di fine anno con il gruppetto della Cattolica (Intiglietta, Fontolan, Giojelli, Amicone, la Cioni…). Quello è forse il momento più tipico dell’ingenium che lo Spirito ha immesso nella nostra esperienza. «Bello il ballo, suggestiva la musica, che vibrazione di gioia. Pensate, tra mezz’ora voi vi starete salutando sulla porta delle vostre case, e ci sarà una malinconia dentro di voi, che voi non guarderete in faccia, che non vorrete ammettere. Ecco, era questo che mancava alla gioia di quella sera. Manca qualcosa di cui la festa era un segno, una profezia, una profezia incompiuta, tanto incompiuta che andrete a letto con una malinconia strana, più grande e più buona del solito». Carà Beltà, che amore lungi m’ispiri… Che bello!

Come giudichi la crisi del 1967-1968? Cosa fu?
Fu la storia di una infedeltà, la causa è un’infedeltà. Infedeltà alla compagnia in cui si era colpiti, nati e cresciuti, per una prevalenza di stupore e ammirazione data al fare degli altri, all’attività politica degli altri. Allora si sono viste le due parti, i due fattori implicati nella vita di Gioventù Studentesca. Gs diceva: «La fede in Gesù ci fa cambiare la vita». Tutti o quasi si sono buttati sul «cambiare la vita». Da noi la vita cambiava insensibilmente; il cambiamento vertiginoso, vorticoso, clamoroso era da parte di quelli che esaltavano l’azione: l’esaltazione dell’azione dell’uomo, governata dalla interpretazione delle cose che l’uomo faceva. Dall’altra parte, quello su cui insistevo io: «La salvezza è Cristo. Non l’azione dell’uomo, ma Cristo è la salvezza». Allora, il discorso che facevo spesso nelle prediche era: «Voi fate come i preti delle parrocchie, che per cinquant’anni hanno parlato del sesto e del nono comandamento (la purità, i puri e forti di Lazzati)». In quel momento, una ideologia nuova impegnata, travolgente, li stendeva a terra. Per questa ideologia le leggi più gravi erano il quinto e il settimo. Non uccidere (eppure uccidevano). Non rubare (eppure si impossessavano di tutto). Il gioco era tale e quale: la salvezza sta nell’osservare la legge. Esattamente come per i farisei. Dicevo: «Per noi la salvezza è nella tenerezza con cui Cristo guarda la gente e come ci ha abbracciati nonostante i peccati, nonostante l’incoerenza. La grande questione è osservare la legge oppure è obbedire a quest’uomo». La grande questione ebbe la risposta adeguata solo in questi anni. Il discorso delle due morali accenna l’ultimo passo. La difesa e la descrizione della nuova morale è il punto culminante, dal punto di vista apologetico, della verità della nostra posizione, della verità del cristianesimo. Chi salva il mondo è una presenza nel mondo, umana: di uno che mangiava e beveva, andava con i peccatori, abbracciava le prostitute, da tutti condannato. Ma chi era colpito da questo Uomo riusciva a cambiare, e tutti gli dicevano: «Sbagli come prima, non hai cambiato niente!». E invece l’unico possibile cambiamento era fissare quest’Uomo. «Chiunque ha speranza in Lui, si purifica come Egli è puro». Lo scopo della storia non è la gloria dell’uomo, la forza dell’uomo, la coerenza dell’uomo, la coerenza morale dell’uomo. Non è quanto predica Norberto Bobbio; insomma non è la moralità: la salvezza dell’uomo è un’altra cosa. È l’incontro e l’amicizia; la compagnia che nasce dall’incontro; il popolo nuovo che nasce dall’affezione a questo Uomo. Si rileggano Paul Claudel e T. S. Eliot. In questo, Claudel più di tutti. Charles Péguy è come un anticipo, ma chi l’ha detto espressamente è stato Claudel, ed Eliot ha tratto la conseguenza cosmica della storia come tale. E il dramma incomincia adesso: capire se la morale nasce da un incontro, la morale è resa possibile, esistenzialmente, storicamente attuale da un incontro, da un connubio; o se invece è generata da un’analisi e da una coerenza piena di presunzione. Questione, peraltro, già risolta agli inizi, duemila anni fa: tutto è carità. La virtù è carità, e la carità è amare una presenza umana, di carne e ossa, così che «pur vivendo nella carne, noi viviamo nella fede del Figlio di Dio», che è la frase più riassuntiva, di cui mi sono accorto l’anno scorso.

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2 commenti

  1. Franco

    Eccezionale.
    Grande don Gius.
    Grazie Renato.

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