
«Rivoluzione»? La dichiarazione Cina-Usa sul clima è un accordo al ribasso

«Accordo storico», «rivoluzione», intesa «fondamentale tanto quanto quella sulla riduzione delle armi nucleari durante la Guerra fredda tra Usa e Urss». Si sprecano i trionfalismi dei media e dell’inviato per il Clima del governo americano John Kerry per l’accordo tra Stati Uniti e Cina, annunciato ieri sera a sorpresa, sul comune impegno per limitare il riscaldamento globale. Se si tratta sicuramente di una buona notizia, dal momento che i due paesi sono i principali emettitori di CO2 del pianeta, è ancora presto per stappare le bottiglie di champagne.
«L’accordo non è una svolta»
Il testo della dichiarazione comune, che promette azioni concrete per «accelerare l’impegno nella decade critica 2020-2030», è ricco di capitoli (16) ma povero di dettagli. Pechino e Washington assicurano che prenderanno misure efficaci per limitare le emissioni nei prossimi otto anni nei settori dei trasporti, dell’energia e dell’industria. Le due potenze garantiscono anche che verrà tagliato l’utilizzo del metano, riconoscendo «che c’è un gap tra gli sforzi attuali e gli obiettivi degli accordi di Parigi».
Alla luce dell’attuale «situazione geopolitica tra Cina e Stati Uniti, che è pessima, l’annuncio è importante», ha riconosciuto l’ex premier australiano Kevin Rudd, presidente dell’Asia Society che lavora agli accordi per il contrasto dei cambiamenti climatici. «Ma non segna una svolta».
Clima, la Cina non è affidabile
Alla base della disillusione espressa da Rudd ci sono diverse ragioni. Innanzitutto, l’ambivalenza della Cina: Xi Jinping ha snobbato la Cop26 e non si è presentato a Glasgow, segno che l’ambiente non è certo tra le priorità del “presidente di tutto”. Inoltre il Dragone, pur avendo affermato di voler limitare l’utilizzo del metano nella dichiarazione congiunta con gli Usa, si è rifiutata nei giorni scorsi di prendere parte a un accordo che aveva proprio questo obiettivo esplicito. Al contrario, si è limitata ad affermare che svilupperà un «piano nazionale» per affrontare il problema. Quando e in che termini non è dato saperlo.
È inevitabile inoltre nutrire scetticismo verso qualsiasi dichiarazione della Cina sui temi ambientali. Pechino ha garantito che raggiungerà il picco delle emissioni entro il 2030 e nel 2060 la neutralità carbonica. Ma solo nella prima metà del 2021 il regime comunista ha approvato la costruzione di 24 nuove centrali a carbone. Inoltre, per far fronte alla carenza di elettricità degli ultimi mesi, Xi Jinping ha ordinato di aumentare del 10 per cento la produzione di carbone. La Cina dovrebbe investire duemila miliardi di dollari all’anno per i prossimi 39 anni, secondo Ubs, per raggiungere gli obiettivi e triplicare la velocità con cui introduce l’energia rinnovabile nel proprio paese, settore in cui è già leader mondiale. Come potrà farlo mantenendo allo stesso tempo gli obiettivi prefissati di crescita economica è un mistero.
Niente sulla riduzione delle emissioni di CO2
Infine, nell’intesa sino-americana non si parla di rafforzare la riduzione delle emissioni entro il 2030 per raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi. Se dichiarazione comune c’è stata, dunque, più che una «rivoluzione» è un accordo al ribasso. Meglio di niente, certo, ma per fare la «storia» serve qualcosa in più.
Foto Ansa
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