
Ciampi, si guardi dagli amici!
«Gli italiani hanno un debito di riconoscenza per il presidente Carlo Azeglio Ciampi. Si è prodigato per rendere normale la nostra fragile democrazia legittimando e sollecitando la reciproca legittimazione degli schieramenti contrapposti. Non è stato tentato da intrighi e manovre come alcuni suoi predecessori. Si è sottratto alla folta schiera di coloro che gli tiravano la giacca per fargli prendere posizioni estranee al suo ruolo. In definitiva, ha usato al meglio quelle doti di moderazione e saggezza che ne hanno fatto un prestigioso capo dello Stato». E come si fa a non essere d’accordo con quello che ha scritto su Il Giornale di sabato scorso Massimo Teodori? Il Presidente Ciampi è uno dei pochi politici di buon senso rimasti all’Italia, uno dei pochissimi a sinistra. E a sinistra per mantenere vivo il buon senso occorre essere coraggiosi. Per controfirmare le leggi del Parlamento sull’immunità per le alte cariche dello Stato, sul legittimo sospetto, di riforma del sistema radiotelevisivo, ecc.; per rimbrottare i magistrati che scioperano pretestuosamente; per mantenere un rigoroso rispetto della politica estera del governo durante la guerra americana all’Irak il buon senso non basta se si appartiene ad una delle famiglie politiche collocate a sinistra: ci vuole anche tanto coraggio. Perché i fischi, i lazzi e le invettive di intellettuali, registi, cantanti, comici, scrittori, iscritti dell’Anm e giornalisti girotondini innescano complessi di inferiorità e condizionano facilmente chi si è formato al tempo dei miti movimentisti del Sessantotto. Ma certamente non un tenente del Regio esercito ed un governatore della Banca d’Italia.
Critici garbati e critici critici
Per queste ragioni gli si perdonano anche quei suoi pochi interventi che esulano dal registro di un garante dell’unità nazionale, come quando per spiegare le ragioni che hanno portato alla creazione della scuola statale e che giustificherebbero tuttora la sua esistenza il Presidente si avventura in una dicotomia fra i “valori pubblici”, che sono quelli promossi dalla scuola statale e debbono essere fatti propri da ogni cittadino, ed i “valori privati”, che le famiglie hanno il diritto di impartire nel chiuso del focolare domestico. Una chiave di lettura che farà la gioia di tutti i giacobini, compresi quelli che hanno steso una bozza di trattato costituzionale europeo che tratta l’identità cristiana dell’Europa come un affare privato. Ma che non rallegra chi resta convinto che i “valori privati” privati in realtà non sono, perché la famiglia è già una realtà sociale, e perché i valori che si vivono al suo interno non sono un fronzolo aggiuntivo, ma la base dei valori pubblici. Gli si perdonano anche certi richiami al valore inestimabile della Resistenza che sembrano fatti più per sottolineare le cantonate prese da qualcun altro che per fornire un contributo di saggezza ai confronti in corso sull’argomento.
Certo, non tutti i critici sono rispettosi come Massimo Teodori, un radicale storico che premette ai suoi garbati rilievi circa le ultime esternazioni del Presidente il reverente omaggio che abbiamo citato all’inizio. Ci sono anche i radicali di oggidì come Giulio Manfredi, esponente del Comitato nazionale Radicali italiani e autore di un libro velenosetto che reca il titolo Telekom Serbia – Presidente Ciampi, nulla da dichiarare? (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Roma 2002). Nel suo libro, che è una ricostruzione dell’affare Telekom Serbia dal 1994 alla metà del 2002, Manfredi se la prende anche con i partiti del centro-destra, e non solo perché non obiettarono al tempo dell’acquisizione, ma perché «hanno, a babbo morto e sepolto, attaccato in modo spietato alcuni esponenti del centro-sinistra (Dini e Fassino) e non hanno infierito minimamente su altri personaggi, corresponsabili politicamente almeno quanto i primi. Due per tutti: Romano Prodi, presidente del Consiglio dal maggio 1996 al novembre 1998, nell’arco di tempo in cui l’affaire prese forma e si perfezionò; Carlo Azeglio Ciampi, Ministro del Tesoro dall’aprile 1996 al maggio 1999, quando fu eletto Presidente della Repubblica».
Ciampi estraneo a Telekom Serbia
Se non hanno infierito, sarà perché non trovano motivo di rimprovero nel comportamento di costoro, o almeno in quello del capo dello Stato. Gustavo Selva, presidente An della Commissione Esteri della Camera dichiarò a Libero il 31 gennaio 2002: «Sono comunque certo che in questo scandalo Ciampi non c’entri nulla. Tutte le ombre sono legate alla Farnesina». Ed il febbraio successivo, alla vigilia della creazione della commissione d’inchiesta su TS: «L’istruttoria politica fu fatta interamente dal Ministero degli Esteri, mentre quella relativa all’economia fu condotta dalla stessa Telecom Italia presieduta da Guido Rossi e diretta da Tomaso Tommasi di Vignano (in realtà a quel tempo la società, ancora di proprietà pubblica, si chiamava Stet – ndr)». «Come a dire: il capo dello Stato non c’entra nulla…», commentava il giornale di Feltri. Un anno prima erano stati, in due separate occasioni, Beppe Pisanu e Gianfranco Fini a mettere la mano sul fuoco per Ciampi. Fini, frainteso in alcune sue dichiarazioni pronunciate a Porta a Porta, dettava all’Ansa: «Chiunque potrà rendersi conto, vedendo la trasmissione, che non c’è alcun motivo di polemica con il presidente della Repubblica. La richiesta di trasparenza era rivolta al governo dell’epoca, e non ho alcuna ragione di dubitare dell’operato del presidente Ciampi».
D’altra parte il nome di Ciampi figura in quella che è considerata la “stele di Rosetta” dell’affare Telekom Serbia, lo scoop di Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo con cui il 16 febbraio 2001 Repubblica denunciava l’esistenza di tangenti pagate su quel contratto. Il famoso servizio riportava un evasivo dialogo in consiglio d’amministrazione fra l’amministratore delegato della Stet che aveva condotto la trattativa coi serbi per l’acquisizione di TS, cioè Tomaso Tommasi di Vignano, e il presidente della Stet Guido Rossi, rappresentante del ministero del Tesoro, allora proprietario del pacchetto di controllo della società. Tommasi si vantò di aver realizzato un ottimo affare, ma non entrò nei dettagli e svicolò tutte le domande di Rossi. «Il capo-azienda è Tommasi. – scrivono Bonini e D’Avanzo – Guido Rossi è lì soltanto per privatizzare Telecom. E Tommasi non gli mostra una carta, che è una, della gestione… Dicono che Guido Rossi s’infuri, come a volte gli capita. Prende carta e penna. Mette agli atti quanto è accaduto e chiede di essere ricevuto da Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro e azionista di riferimento della Stet. Ciampi lo riceve. Sconsolato, alle proteste di Guido Rossi allarga le braccia e dice: “Anch’io vengo tenuto all’oscuro di tutto”».
La verità è che con Presidenti del Consiglio come Prodi e D’Alema e ministri degli Esteri come Dini non basta chiamarsi Ciampi ed essere ministri del Tesoro per far pendere la bilancia dalla parte del buon senso. Ricordate la scalata di Colaninno e Gnutti a Telecom, organizzata a partire dalla Olivetti in cui lo Stato italiano aveva iniettato 750 miliardi di lire e alla quale aveva assegnato la lucrosissima licenza di telefonia mobile di Omnitel, ultimissimo atto del governo Ciampi nell’aprile 1994? Nel contratto stipulato fra lo Stato ed Olivetti Ciampi aveva fatto inserire l’ovvia clausola che per almeno cinque anni la licenza non poteva essere rivenduta ad altri. Ma prima nel 1997 e poi nel 1999 Olivetti aveva ottenuto decisive deroghe prima per fare entrare nella gestione di Omnitel i tedeschi della Mannesmann (governo Prodi), e poi per vendere Oliman, la società attraverso cui Olivetti e Mannesmann gestivano Omnitel (governo D’Alema). è coi soldi di queste operazioni che il signor nessuno Colaninno ha scalato Telecom. Un altro aiutino lo ebbe dal fatto che il ministero del Tesoro, che anche dopo la privatizzazione restava il singolo maggiore azionista di Telecom col 3,46% delle azioni, rinunciò a partecipare all’assemblea degli azionisti convocata dall’amministratore delegato di Telecom Franco Bernabé per resistere alla scalata di Colaninno. Mario Draghi, collaboratore di Ciampi e rappresentante del Tesoro in Telecom, cercò di spiegare a Massimo D’Alema che quello non era il modo giusto di garantire la neutralità dello Stato nella scalata. Come abbiamo scritto su queste pagine, «…la neutralità si esprime con il voto di astensione, e non facendo mancare il quorum all’assemblea… Per tutta risposta il premier diessino mette nero su bianco l’ordine di boicottaggio dell’assemblea Telecom con una missiva in cui invita il Tesoro a non parteciparvi per ragioni di “opportunità politica”».
Colaninno e Dini, tipi da prendere con le molle
Va ancora ricordato che è merito di Ciampi se la direttiva sulla golden share, la norma che regola la privatizzazione delle aziende a maggioranza statale, contiene una clausola in base a cui il Tesoro può stoppare le operazioni mancanti dei requisiti di trasparenza. Questi poteri non sono stati esercitati quando Colaninno ha scalato Telecom attraverso una società finanziaria con sede in Lussemburgo (leggi: elusione fiscale) e di cui era socio un misterioso “Fondo Quercia” con sede nelle isole Cayman (un paradiso fiscale utilizzato da narcotrafficanti e finanziatori di Al Qaeda), ma il capo del governo si chiamava D’Alema, non Ciampi. Quando Ciampi, per evitare la perdita di migliaia di posti di lavoro alla Olivetti, aveva firmato nel ‘94 all’ultimo secondo del suo governo la concessione della licenza di telefonia mobile alla società di Ivrea, non poteva certo immaginare che quell’asset sarebbe stato usato per una spregiudicata operazione di Borsa. E nessuno può rimproverarlo di non avere richiesto a Colaninno la lista degli azionisti e delle persone fisiche che si trovavano dietro la Bell, la finanziaria lussemburghese di cui sopra si è detto. Non è colpa sua se alla lista non è mai stata data troppa pubblicità.
La verità è che Ciampi ha sempre avuto più problemi con gli alleati che con gli avversari politici. Non aver mai avuto rapporti idilliaci con Lamberto Dini quando erano entrambi alla Banca d’Italia non gli è giovato. Dini è un tipo capace di dichiarare che nessun governatore della Banca d’Italia da lui conosciuto è mai stato un massone, e poi di “dimenticare” di menzionare il nome di Ciampi nella lista degli “innocenti”. è anche uno capace di dire, in pieno summit dei segretari dei partiti dell’Ulivo, che lui non c’entra niente con l’affare TS ma che può parlare solo a titolo personale.
Ma la consacrazione definitiva di Ciampi, presidente di tutti gli italiani, la avremo il giorno non lontano in cui esaudirà la richiesta che Manfredi gli fa nella prefazione del suo libro: «“Cari italiani, devo dirvi la verità: nel 1997, quando ero ministro del Tesoro… avrei dovuto impedire che, con i soldi delle vostre bollette telefoniche e delle vostre tasse, l’Italia finanziasse Milosevic; fu un errore di cui voglio chiedere oggi pubblicamente scusa sia voi sia al popolo serbo”. Un Presidente che facesse una tale dichiarazione non perderebbe ma acquisterebbe stima e prestigio sia in Italia sia a livello internazionale…».
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