Ci servono molti minuti e molti centimetri per collaborare ai “miracoli”

Di Emanuele Boffi
09 Marzo 2014
Per pochi centimetri il treno intercity 660 Milano-Ventimiglia non è finito in mare ad Andora. «Un miracolo», hanno detto i passeggeri, che ha avuto bisogno anche dell'uomo per essere completato

Non più in là di un palmo di mano, là sotto, ci sarebbe stato solo lo schianto col muro del mare. Quando il 17 gennaio, intorno alle 12.40, il locomotore E444R “Tartaruga” si è fermato a qualche centimetro dall’abisso, è stato solo per pura fortuna – o caso o provvidenza – che non è precipitato di sotto, trascinando con sé tutti i vagoni, con le loro duecento anime. Per pochi centimetri il treno intercity 660 Milano-Ventimiglia non è finito in mare. Per pochi centimetri la carrozza di seconda classe Z1 non ha seguito il locomotore. Se solo fossero stati un dito più in là, se solo dopo essere deragliati il loro peso li avesse trascinati di un soffio oltre la scogliera, sarebbero morti tutti. Portati giù, in acqua, dentro un proiettile di ferro e cavi.

Sarebbe potuta essere anche una questione di minuti. Quei pochi che hanno preceduto il passaggio del treno e in cui si è verificato uno smottamento del tratto di pendio collinare che sovrasta i binari. Che ha fatto barcollare una terrazza privata che per pochi centimetri non è crollata (fosse crollata…) e che invece ha fatto arrivare sul percorso alcuni detriti. Quei tanti che hanno fatto deragliare il treno. Ma solo quelli, non di più. Fossero stati di più, oggi parleremmo di una tragedia. Invece erano quelli, e solo quelli, che hanno fatto deragliare la locomotrice e il primo vagone, ma solo barcollare le carrozze successive.

Così non è morto nessuno. Solo qualche lieve ferita da curare in qualche giorno. Ma quando la gente è scesa, quando ha ripreso contatto con la vita dopo la sospensione dello spavento, quando ha sentito i vetri infranti scricchiolare sotto le suole, ha ripensato a quei minuti e a quei centimetri. E la gente ha detto: «Siamo salvi per miracolo». Perché il miracolo avviene sempre per questione di minuti e centimetri, come un baleno che divide ciò che è da ciò che avrebbe potuto essere. (È come se ci fosse stata una parentesi nelle vite di quei duecento passeggeri. Un tempo in cui essi sono usciti dall’incoscienza che ci fa credere di essere padroni dell’ora e del minuto in cui si verificherà una frana. Non uno smottamento qualsiasi, ma proprio quello sulla parete rocciosa tra Andora e San Bartolomeo Cervo).

Poi è venuto il tempo di aggiustare le cose e di rimetterle in ordine. Così squadre di tecnici e operai hanno lavorato per giorni, sabato e domenica inclusi, per capire come acconciare il disastro. Hanno effettuato rilievi topografici, hanno controllato lo stato dei terreni e dei fabbricati, hanno stabilizzato con reti chiodate il fronte fratturato. Il mestiere più lungo e delicato è toccato agli operai che hanno dovuto sgretolare il terrazzo con delle particolari pinze taglia-cemento. Perché era un’impresa delicata, da fare piastrella per piastrella, centimetro per centimetro. Ma, questa volta, adesso che toccava a essere umani porre rimedio, si trattava di molti centimetri. E di molti minuti.

È venuto anche il momento di staccare i tre vagoni che non erano deragliati. Il tempo è stato clemente: il sole ha asciugato la terra, gli operai hanno messo in sicurezza il terrazzo e quindi ripulito il terreno dai detriti. Quindi, con cautela, lentamente, hanno staccato i vagoni della locomotrice ferita. Piano piano, perché sarebbe bastata una mossa incauta, una bestemmia, perché tutto finisse oltre la scogliera. Un lavoro paziente, con un occhio sempre rivolto alla motrice in bilico, la cicatrice non rimarginata che ricordava loro che il passato è sempre reale.

Il 23 febbraio alle 15 dal molo Giano del porto di Genova è partita la chiatta accompagnata da tre rimorchiatori. Ha viaggiato tra le onde tutto il giorno e la notte per essere la mattina ad Andora. Una chiatta enorme, una Flat Top Ballastable di 90 metri per 27. Un mostro marino di duemila tonnellate, che ne poteva portare novemilasettecento. Sopra, cinque gru. Due utilizzate per sollevare le novanta tonnellate della motrice e le quarantacinque del vagone, un’altra posizionata a terra per coadiuvare le operazioni di traslazione e altre due di supporto. All’alba la chiatta si è messa in mare, davanti al treno, incastrata dai due rimorchiatori tra rocce e fondali.

Le gru con i loro bracci da cinquanta metri hanno sollevato le carrozze imbracate rimettendole sui binari. Gli operai hanno sistemato le parti rovinate, riallineato i carrelli, raddrizzato i binari. Un lungo lavoro, centimetro per centimetro, durato dodici ore. Dodici ore sono servite agli uomini per portare a termine un miracolo cui erano bastati pochi minuti e centrimetri per avverarsi. Ma si sa, agli uomini occorre tempo e spazio per completare l’opera cui il destino li chiama. 17 gennaio – 24 febbraio: 38 giorni. Quasi una quaresima.

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1 commento

  1. domenico b.

    ecco perchè mi piace leggere Tempi.it: perchè non è solo raccontare una notizia, fare della cronaca.
    E’ anche il cercare un senso a quello che accade, a volte con ironia, con meraviglia, e sempre con l’ottimismo di chi è cristiano

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