
Christopher Lasch e il conservatorismo della gente comune

La storia delle idee è piena di pensatori semi-dimenticati o messi all’angolo per motivi, diciamo così, ideologici. Un’altra strada percorsa, forse ancora più comoda, è quella di prendere alcuni aspetti considerati accettabili e far finta che altri non vi siano: si tratta, dunque, di spezzettare l’unità in frammenti, una prassi decostruzionista che va molto di moda. Questo è il caso di un autore che forse molti hanno orecchiato ma che pochi, in realtà, davvero conoscono: Christopher Lasch (1932-1994). Nato in Nebraska, nel Midwest, Lasch è stato un pensatore profondamente novecentesco. Ha attraversato il secolo mutando più volte la propria visione del mondo. Nato da genitori liberal e atei, Lasch è stato un pensatore di sinistra, con tendenze socialiste, fino a giungere, alla sua prematura scomparsa, alla soglia di un conservatorismo piuttosto radicale e dalle tinte religiose. Un tratto che certamente può far arricciare il naso.
La famiglia: il fulcro vitale di una buona società
Noto perlopiù per La cultura del narcisismo (1979), in verità è per lui la famiglia il tema della vita. Il volume a essa dedicata, Rifugio in un mondo senza cuore (1977), era il suo preferito in assoluto. Non la considerava certamente un’istituzione esente da imperfezioni, anzi. E tuttavia, essa rimaneva il punto di riferimento fondamentale perché un individuo in fase di formazione potesse maturare quei freni interiori e morali che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Da essa, per Lasch, dipende la tenuta di una società democratica in grado di autogovernarsi. La sua crisi, di conseguenza, è propedeutica alla crisi del tessuto sociale. Non solo. La famiglia è anche uno straordinario contropotere contro l’invadenza dello Stato. Nel corso dell’Ottocento, arrivando fino a noi, è però successo che al dispositivo statale sono stati demandati sempre più compiti precedentemente appannaggio della famiglia. Il motivo è semplice e ha a che fare con una certa tendenza politica ortopedico-pedagogica, figlia dell’Illuminismo. La famiglia era considerata, dai riformatori sociali progressisti, incubatrice di pregiudizi e atavismi da estirpare. Una nuova società, liberata dalla propria umana imperfezione, non poteva che affidare allo Stato il compito di razionalizzare il legno storto di cui è fatto l’uomo.
Sennonché, in tal modo, si sono create le condizioni per forme di dispotismo ancor più capillari e pericolose: Lasch parlava della tendenza a vedere la società come un paziente da curare. Per lui, la distruzione della famiglia ha fatto da detonatore alla propagazione di uno spirito servile e succube del potere: «Minando la capacità di autodirezione e di autocontrollo, la società ha incrinato una delle principali fonti di coesione sociale, all’unico scopo di crearne altre ancor più oppressive e in fondo più deleterie in materia di libertà personale e politica».
Democrazia e tradizione
Il tema della famiglia si lega direttamente a quella della democrazia, anch’esso cruciale per Lasch, e non solo per come trattato nel libro postumo La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia. Il primo passo è intendersi sul significato del lemma. Per lui, la democrazia non è tanto un sistema istituzionale, quanto un modo di vivere. Per democrazia intende, sulla scorta di Thomas Jefferson, l’autogoverno delle comunità. Ne consegue che alla base della sua vitalità risiede l’associazionismo, lo spirito d’indipendenza, la gestione quotidiana dell’uomo ordinario delle sue faccende. In tal senso, essa è ostile alla verticalizzazione e alla centralizzazione del potere. Utopistico o meno, Lasch pensava che il futuro della democrazia fosse nella riscoperta dell’autogoverno più autentico, e cioè all’insegna del federalismo e della sussidiarietà. A ciò si accompagna il tema della tradizione.
A partire dagli anni Ottanta, Lasch s’interessò sempre più ad alcuni pensatori quali i distributisti Hilaire Belloc e G.K. Chesterton. Quest’ultimo nel suo Ortodossia (1908) sosteneva che democrazia e tradizione non fossero antonimi, bensì indissolubilmente legati: «La tradizione non è che la democrazia estesa nel tempo», affermava. L’autogoverno è ostile alle oligarchie progressiste che vorrebbero rifare il presente, e impostare il futuro, sulla base di un’etica terapeutica. Ciò che esso oppone è invece il sapere tramandato, l’esperienza tesaurizzata dalle persone ordinarie: la tradizione, scriveva, Chesterton, «è la democrazia dei morti».
Spirito progressista o sentimento religioso?
In un altro volume, forse il più noto dopo quello sul narcisismo, Il paradiso in terra (1991), Lasch provò a immaginare un discorso etico-politico diverso rispetto a quello idolatrico del progresso. Pur criticabile per una certa disinvoltura nell’accostare pensatori anche molto diversi l’uno dall’altro, al pensatore americano interessava ricostruire una linea di pensiero basata su qualche cosa d’altro rispetto al progressismo fine a se stesso.
Reminiscente per alcuni versi di quanto Augusto Del Noce aveva scritto – certamente in maniera ben più solida – Lasch riteneva che un mondo più umano dovesse riscoprire un’etica dei limiti. Secondo lui, il sentimento religioso, di tendenza cristiana, costituiva il vero antidoto alla hybris moderna. Se lo spirito illuministico ingenera nell’uomo una volontà perenne di andare oltre ai limiti dell’umano, la religione cristiana, secondo Lasch, costituisce la leva attraverso cui riscoprire davvero quelle che Edmund Burke chiamava le «grazie naturali della vita». La religione, inoltre, consente di guardare in faccia la vita, con umiltà ma anche con fermezza: «La religione non è solo un rifugio, un mezzo di sicurezza in un mondo tormentato. È anche una sfida all’autocommiserazione e alla disperazione (…). La sottomissione a Dio rende le persone meno sottomesse nella vita quotidiana. Le rende meno timorose, ma anche meno amareggiate e risentite, meno inclini a trovare scuse per se stesse».
Un conservatorismo della gente comune?
Uno degli ultimi scritti di Lasch, piuttosto sconosciuto, Conservatism against Itself (1990), mette a fuoco quella sensibilità che chiamava populista, piccolo-borghese ma anche conservatrice. Ma non di un conservatorismo elitistico o elitario, bensì di un “ordinary people conservatism”. Un conservatorismo, dunque, non schierato dalla parte di un mondo iper-moderno, industrialista e capitalista, e tantomeno stato-centrico. Questo, secondo lui, era agli antipodi di un conservatorismo rettamente inteso. Era l’idea di comunità da riscoprire, per come concretamente vissuta dalla gente comune: i luoghi del quotidiano che aiutano a capire cosa è giusto e cosa no, cosa è bene e cosa è male, che fungono insomma da tirocinio dell’azione morale e dunque responsabile.
Cruciale, inoltre, era riscoprire il concetto di proprietà: «Da un punto di vista conservatore, c’è molto da dire sull’istituzione della proprietà privata, che insegna le virtù della responsabilità, del lavoro e della dedizione auto-subordinata a compiti umili ma indispensabili. Il capitalismo del XX secolo, tuttavia, ha sostituito la proprietà privata con una forma societaria [corporate] che non conferisce nessuno di questi vantaggi morali e culturali». Il vero conservatore è interessato a preservare un mondo concreto, materiale che è sempre più in pericolo: «I veri conservatori – affermò così nel 1985 – potrebbero risultare i radicali del Ventunesimo secolo».
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