
Horner, 42 anni, trionfa alla Vuelta. Ma al ciclismo nessuno ci crede più
Il dramma della vittoria di Chris Horner alla Vuelta di Spagna è che non gli crede più nessuno. Quasi 42 anni sulla carta d’identità, una carriera spesso in seconda fila, da gregario, l’americano diventa all’improvviso la faccia vincente del ciclismo, il corridore più anziano di sempre ad arrivare primo in una corsa a tappe. Eppure, non fa in tempo a giungere sul traguardo che già si moltiplicano i sospetti per un’esplosione così tardiva, in un anno in cui il ciclismo aveva giurato di voler ricominciare dopo le ammissioni di Armstrong in tema di doping.
L’USADA LO CERCA IN ALBERGO. Non è ancora possibile stabilire con certezza se Horner ha vinto la Vuelta con l’aiuto di qualche sostanza dopante o solo in virtù delle sue gambe e del suo fiato. Qualche sospetto sorge, ed è più che lecito nel vedere con quale ritmo un ultraquarantenne è riuscito a scalare i Pirenei. I sospetti si sono trasformati in mezze certezze questa mattina, quando la testata spagnola AS ha diffuso la notizia che il ciclista non sarebbe stato reperibile per un controllo anti-doping: l’Usada sarebbe andato a cercarlo nella sua camera d’albergo, senza però trovarlo. Il team dello statunitense, la RadioShack-Leopard, ha provato a spiegare che all’origine di tutto ciò ci sarebbe un semplice misunderstanding: Horner aveva comunicato nei giorni scorsi all’agenzia anti-doping americana di aver cambiato albergo per stare con la moglie, ricevendo per altro il loro ok. I medici sono andati a cercarlo nell’albergo vecchio, e non trovando il ciclista, hanno subito informato un giornalista spagnolo che ha battuto per primo la notizia.
LE SUE ASCESE “DA MARZIANO”? Che tanto clamore ha trovato nel rimbalzare da una testata all’altra, a differenza invece della giustificazione del team, che ben poco spazio e credibilità è riuscita a ritagliarsi. È questo il punto: al ciclismo ormai non crede più nessuno. E, precisazione forse superflua, non è che manchino ragioni per sostenere dubbi e illazioni su questo sport. Colpevole o meno di doping, Horner subisce a priori questo sistema di cui è parte. Gli si rinfacciano le sue amicizie con Armstrong sebbene il suo curriculum non si sia mai macchiato di quella parola, doping. Si punta il dito contro le sue ascese “da marziano” in questi giorni di Vuelta, quando un’analisi approfondita dei dati dice che la realtà delle sue pedalate non è poi così stellare: in due tappe chiave della sua Vuelta (la 10a e la 18a), è salito con una spinta tra i 6,1 e i 6,5 watt/kilo. Valori ottimi, ma non così impossibili: Armstrong e Pantani, ad esempio, arrivavano a 6,8, potenza che riuscivano a tenere su salite di 40 minuti a Giro e Tour. Qui le ascese di Horner ne duravano al massimo 20, e il distacco accumulato sugli inseguitori non è stato poi oceanico.
FAVOLA DA OUTSIDER, MA NON GLI CREDE NESSUNO. Così passa in secondo piano tutta la storia straordinaria di questo ciclista, nato a Okinawa, Giappone, dove il padre lavorava in una base militare, e cresciuto facendo di tutto, pure il manovale e il meccanico, pur di guadagnare qualche soldo per comprarsi le bici. Da ciclista, come detto, ha vinto poco, seppur dopo aver conquistato nel 2011 il Giro di California non si fece problemi a dire che, dopo Contador ,il più forte del mondo era lui. La vittoria alla Vuelta sembra la storia perfetta dell’outsider che attende una vita per lanciare la zampata vincente, e che quando tutti lo danno per finito azzecca le tre settimane che gli cambiano l’esistenza. Sarebbe un grande racconto di ciclismo, e forse è inutile che ci ostiniamo a cercare il bruco nella mela. Ma la verità è un’altra, e sta in quei sospetti con cui la maglia rossa di Horner è stata vista da tutti: quando la straordinarietà siede in bici non gli crede più nessuno.
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