
«Con la chiusura di Usaid sono stati cancellati molti progetti Avsi»

«Si tratta di una decisione violenta che mette a rischio la vita delle persone». Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi, dice a Tempi che la decisione dell’amministrazione Trump di chiudere Usaid e di congelare fondi per progetti già contrattualizzati è gravissima. Come ha scritto in una lettera pubblicata il 18 marzo sul Corriere della Sera, nel caso di Avsi si tratta di attività per oltre 15 milioni di euro in Uganda, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Ecuador, Kenya, Brasile.
Trump e il Doge di Elon Musk hanno usato la mannaia: il sito di Usaid è stato messo offline, sono stati bloccati miliardi di dollari di aiuti (nel 2023 erano stati 38, di cui una ventina destinati a programmi sanitari e di risposta a emergenze), licenziati migliaia di dipendenti. Martedì un giudice federale del Maryland, Theodore Chuang, ha emesso un’ingiunzione per evitare la chiusura dell’agenzia e bloccare i licenziamenti decisi da Musk. Secondo Chuang, tali azioni violano la costituzione degli Stati Uniti perché solo il congresso, e non il governo, avrebbe tale potere. Ma, al di là di come si chiuderà la vicenda legale, il dato di fatto è che Avsi, così come tante altre Ong, si è ritrovata, da un giorno all’altro, a non poter più fare affidamento sugli aiuti statunitensi.

Ci aiuti a capire cosa faceva Avsi grazie agli aiuti di Usaid.
Sostenevamo moltissimi progetti. Ad esempio, in Uganda e in Congo aiutavamo le famiglie a pagare le tasse scolastiche per i figli e formavamo le persone affinché potessero imparare un mestiere. In Kenya fornivamo medicinali a donne sieropositive. In Ecuador e in Brasile davamo assistenza ai rifugiati venezuelani aiutandoli a reinserirsi nel tessuto sociale. Ad Haiti davamo sostegno ai bambini malnutriti fornendo loro cibi proteici.
Sul vostro sito sono raccontate le storie di alcuni ugandesi che, grazie a Usaid, hanno potuto ricostruirsi una vita, combattere la povertà, dare ai propri figli qualcosa da mangiare, avviare piccole attività imprenditoriali.
Quello è un esempio, concreto e tra tanti, di come venivano usati questi aiuti. La decisione violenta e inaspettata di chiudere questi progetti ha fatto sì che 600 mila persone non riceveranno più assistenza. Spesso è una questione di vita o di morte. Si pensi solo a cosa significa interrompere la fornitura di antiretrovirali, i farmaci utilizzati nel trattamento dell’infezione da virus dell’Hiv. Significa condannare i malati.
L’amministrazione Trump è convinta che Usaid, che aveva un bilancio di 40 miliardi di dollari e oltre 10 mila dipendenti, fosse un “buco nero” di sprechi e fosse gestita da gente corrotta e dedita a propagandare nel mondo la “teoria gender”. Anche prima di Trump, i repubblicani avevano più volte criticato Usaid dicendo che i suoi fondi erano finiti nelle tasche dei terroristi di Hamas e Jabhat al-Nusra.
Ho letto anche io queste denunce, ma penso che occorra essere più precisi quando si muovono accuse gravi come queste. La nostra esperienza è che la stragrande maggioranza dei progetti di Usaid aveva finalità di cooperazione e sviluppo come quelle che abbiamo descritto prima. L’eccesso di zelo ha portato l’amministrazione Trump a chiudere progetti che non avevano nulla a che fare con le politiche Dei (diversity, equity and inclusion).
Ad esempio?
Ad esempio un nostro progetto in Myanmar che conteneva la parola «inclusion», riferita alle minoranze cristiane che in quel paese sono perseguitate, è stato chiuso. Altri che parlavano di «family approach», riconoscendo la famiglia come primo tassello della società, sono stati inspiegabilmente eliminati.
Usaid è nata nel 1961 per volontà di John F. Kennedy e per sessant’anni è stata un formidabile strumento di soft power. Potremmo dire che ha rappresentato il “volto buono dell’America”. E ora? Chi sostituirà gli Stati Uniti?
È probabile che qualcuno voglia riempire quel vuoto, ma staremo a vedere chi, in quanto tempo e con quanti soldi. Qualcuno dice che, d’ora in poi, gli Stati Uniti, smantellata Usaid, tratteranno gli aiuti singolarmente Stato per Stato. Quel che è certo è che, al momento, hanno perso moltissima credibilità.

Non solo gli Stati Uniti: anche Regno Unito, Belgio, Svezia, Paesi Bassi e forse anche Germania e Canada ridimensioneranno i loro portafogli di aiuti. Al contrario, lei nella lettera al Corriere scrive che l’Italia, grazie al Piano Mattei, sta procedendo sulla via della collaborazione.
Noi abbiamo un giudizio positivo del Piano Mattei che non è un progetto che nasce dal nulla, ma dalla quarantennale storia della cooperazione italiana che ha sempre lavorato per promuovere sviluppo, pace e benessere. È sbagliato e controproducente tagliare tutto e con poco criterio. Bisogna al contrario cercare di creare partnership di sviluppo che siano eque e buone per tutti, in cui sia chiaro, come ha anche più volte ripetuto la presidente Giorgia Meloni, che «nessuno si salva da solo». È questa l’idea in cui ci riconosciamo: abbiamo tutti un destino comune.
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