Chissà se anche di noi un giorno non resterà che qualche cianfrusaglia da mercato delle pulci

Dieci chilometri da Ravenna. Dall’autostrada a qui solo terra piatta e carica di frutti. Vigne, granoturco, covoni in linee perfette, come truppe di un esercito di abbondanza. A Russi c’è la festa del paese. Nella piazza quadrata coi suoi bei porticati attorno, i tavolini dei caffè all’aperto sono pieni di avventori. Si mangia, si beve. Il segnavento in cima alla Torre dell’Orologio ruota appena appena, un alito di vento in una calda notte di luglio.
La folla vaga beata tra le bancarelle dei rigattieri. È un mercatino di campagna profonda: ferri da cavallo, catenacci da stalla, stadere, tutto fulvo di ruggine. Colapasta di smalto, ferri da stiro a carbone, mattarelli lisi da cinquant’anni di rotolio sulla pasta. E attrezzi di forme strane e bizzarre, di cui ormai si è dimenticata la funzione. «A cosa serve questo?», chiedono curiosi i ragazzini, indicando forcipi giganti – «forse, per il parto dei vitelli?» – o cinture per portare in vita la roncola. Tu soppesi a lungo, cercando di immaginare cosa siano mai state, due lunghe feluche di legno scurissimo e liscio, con una fessura nel fondo. «Spole da telaio», svela ridendo della tua perplessità l’ambulante. Avanti e indietro, per i banchi carichi di schegge e reliquie di un passato già lontano e sprofondato nel tempo. Prima sei solo curioso, poi insegui con uno sguardo più assorto gli orologi da tasca, i rosari, le medaglie della prima comunione – strappati dai cassetti di vecchie credenze il giorno che l’ultimo in una casa è morto, e si è svuotato tutto. Il ritratto di due vecchi sposi, in bianco e nero, è in vendita per poco. Guardi quelle due facce belle, segnate, fiere, e ti accorgi che ti è girato il vento nel petto – come la bandiera di ferro lassù, sulla Torre dell’Orologio.
Le vanghe, le bilance, i paioli rugginosi non ti divertono più, non sono più curiosi giocattoli. Per un momento davanti alla foto di quei due hai intuito quanto di vita di uomini c’è dietro gli oggetti approdati come relitti spinti dalla corrente, sui banchi di un mercato. Quelli che usavano queste pentole, queste zappe, e i rosari, sono morti da tempo, e da tutti dimenticati. Le cose, pensi con un moto di ribellione, restano; la materia non muore. Quelle spole di telaio lucidate da un infinito tessere la lana, eccole, intatte. Le mani che le conducevano sul telaio, perdute.
E non è solo la musica dall’altoparlante – vecchie canzoni di De Gregori che ascoltavi al liceo. Non è un sentimento, la malinconia addosso in questa festa di paese. È invece un dubbio, ragionevole e doloroso. Gli uomini che usavano queste cose, scomparsi, foto sbiadite su lapidi da rimuovere. E noi, dunque, e i nostri figli, come loro. Un giorno su questi banchi si venderanno, ammucchiati in ceste polverose, i nostri cellulari, e appariranno grossi, goffi, preistorici. «Mamma, guarda, cos’è quello?», chiederanno i bambini.
E noi, di noi più niente. È il dubbio radicale, quello che ti incrina da sempre, il tuo silenzio stasera. Se ci fosse qualcuno, accanto, a dirti: ti sbagli, non è vero. Ma non c’è nessuno; e in mezzo alla folla spensierata ed estranea sembra così insensato sperare da soli.

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