
«Chiedo alla Consulta di ascoltare le ragioni dei malati contrari al suicidio assistito»

La vita è un diritto indisponibile e su questo non ci piove. Meglio: non ci pioveva, finché un giorno, trovata la strada molto spianata, salirono sul palco i radicali con la loro mortifera battaglia per il suicidio assistito. Tutto cominciò con il celeberrimo caso Dj Fabo e oggi siamo a quelli di “Elena” e “Romano” (così ribattezzati dalla stampa). La pratica è (era) vietata perché il Codice penale all’articolo 580 punisce chi aiuta altri a morire, poi nel 2019 la Corte costituzionale ha stabilito che invece non è reato qualora per il “candidato” ricorrano determinate condizioni: patologia irreversibile, sofferenza fisica-psicologica intollerabile, volontà lucida di morire, trattamento di sostegno vitale. Quest’ultimo punto in particolare sarà nuovamente sotto i riflettori della Consulta mercoledì prossimo, quando la massima magistratura italiana, custode della nostra Carta fondamentale, deciderà sul caso cosiddetto “Cappato ter”, procedimento penale nel quale il noto radicale di sinistra è imputato di aiuto al suicidio nel capoluogo lombardo.

Le carte sono finite dinanzi alla Suprema Corte perché il Tribunale di Milano ha sollevato la questione di legittimità sottoponendo ai giudici costituzionali, in estrema sintesi, questo problema: va punito chi aiuta a morire una persona che voglia suicidarsi e che non sia, però, tenuta in vita da un sostegno vitale? Cioè: l’aiutante al suicidio va assolto anche quando questo requisito, finora fondamentale come stabilito dalla stessa Corte, non è presente? In occasione dell’ultima pronuncia della Consulta, l’anno scorso, furono ammessi due malati che chiedevano di morire, i quali si videro riconosciuta la partecipazione al processo costituzionale. Oggi, invece, alla stessa stregua, sono quattro malati che non vogliono morire a chiedere di essere parte del processo. Il loro patrocinio è stato curato da due avvocati e docenti universitari, Mario Esposito, ordinario di Diritto costituzionale a Lecce, e Carmelo Leotta, associato di Diritto penale all’Università Europea di Roma, interpellato da Tempi per questa intervista.
Professor Leotta, ci dice in breve da dove nasce la questione di mercoledì prossimo alla Consulta?
Questo processo costituzionale è stato avviato dal Tribunale di Milano, chiamato a valutare la responsabilità di Marco Cappato che, come sa, è indagato di aiuto al suicidio per aver accompagnato in Svizzera, in tempi diversi, due malati che si chiamano Elena e Romano.
Che sono i nomi “giornalistici” utilizzati dai media in riferimento ai loro casi, giusto?
Esatto. Dunque, nel corso di questo procedimento il Tribunale milanese ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sull’articolo 580 del Codice penale, nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio della persona affetta da una patologia irreversibile, da sofferenze fisico-psicologiche intollerabili, capace di decisioni libere e consapevoli, ma che non abbia anche la necessità del trattamento di sostegno vitale. In pratica, si sostiene l’incostituzionalità della norma che consente di accedere al suicidio assistito solo alle persone che si trovano contemporaneamente in queste quattro condizioni. L’incostituzionalità deriverebbe dalla previsione del requisito del trattamento di sostegno vitale in quanto, sostanzialmente, andrebbe a limitarne troppo l’accesso. Non solo, ma secondo il giudice che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale [il Gip di Milano, nda], l’attuale impianto normativo selezionerebbe i casi di suicidio assistito, distinguendo tra quello praticabile e quello non praticabile in maniera irragionevole.
Perché irragionevole?
Perché richiederebbe di giungere a uno stato di sofferenza, nonché di gravità della malattia, tale da dover per forza ricorrere al trattamento senza consentire fino ad allora l’esercizio di un atto di scelta sulla propria vita; questo, secondo il Gip, sarebbe contrario sia al principio di dignità personale sia al principio di autodeterminazione della cura che sono entrambi previsti in Costituzione.
Quando parliamo di “trattamento vitale” siamo dinanzi a un concetto sul quale c’è unanimità di vedute?
Non c’è unanimità. Però c’è una definizione nella sentenza della Corte dello scorso anno, la n. 135/2024, che ha ancorato il concetto di trattamento a una «prossimità alla morte», nel senso che il sostegno vitale è quel trattamento necessario per il compimento di funzioni vitali, tale per cui, se interrotto, la persona in breve tempo muore.
Tornando all’argomento centrale, immagino che lei e il suo collega Esposito siate di parere diametralmente opposto a quello del Tribunale di Milano, giusto?
Sicuramente, ma il tema più interessante di questo procedimento è forse quello dell’ammissione dei quattro malati al processo, considerato che nel 2024 due malati che volevano accedere al suicidio assistito hanno chiesto di parteciparvi e sono stati ammessi dalla Corte costituzionale.
In qualità di “intervenienti”, per usare il termine tecnico?
Esatto, come intervenienti, cioè come titolari di un interesse alla soluzione del caso, in quanto per intervenire, appunto, il soggetto deve avere un interesse immediato che deriva dalla decisione che sarà presa dalla Corte.
La legittimazione, in pratica.
Sì, è una legittimazione processuale. Letteralmente è un interesse qualificato, la norma si riferisce a un «interesse qualificato inerente in modo diretto ed immediato al rapporto che viene dedotto nel giudizio», cioè nel giudizio di costituzionalità.
Adesso la novità è rappresentata da cosa?
Dal fatto che chiedono di intervenire quattro malati che il suicidio assistito non lo vogliono. A questo punto nasce il solito problema, l’obiezione: se tu vuoi vivere, il tema non riguarda te, nessuno tocca la tua vita, nessuno ti chiede di accedere al suicidio assistito, lascia la libertà a chi lo voglia di ricorrere al suicidio, per te cosa cambia?
Stesso schema argomentativo utilizzato per l’aborto e altre cose di analoga matrice, insomma.
Sì, la logica in sostanza è la stessa. Però se ci riflettiamo, non è vero che la soluzione che la Corte darà a questo caso, allargando o meno il suicidio assistito, sia senza effetti per i quattro malati che il suicidio non lo vogliono. Infatti, nelle sentenze costituzionali in cui si parla della incriminazione dell’aiuto al suicidio (la 242 del 2019, la 135 del 2024), si dice anzitutto che si tratta di una norma necessaria che è posta a tutela della vita dei vulnerabili. Sulla base di questa premessa, la Corte ha, poi, creato, con la sentenza n. 242, uno spazio di non punibilità per l’aiuto al suicidio quando ci sono dei requisiti di carattere prima di tutto oggettivo, cioè la patologia irreversibile e il trattamento di sostegno vitale in capo al malato, oltre ovviamente alla capacità di intendere e di volere e alla intollerabilità della malattia. Utilizzando un’espressione usata dalla Corte costituzionale, quella di «cintura di protezione», si capisce bene che i malati sono portatori di un interesse. È come se dicessero ai giudici costituzionali: lo standard di tutela del nostro diritto alla vita dipende da quello che deciderete perché se voi togliete, dalle condizioni di non punibilità, un requisito fondamentale come il trattamento di sostegno vitale, assottigliate propria questa cintura di protezione per noi vulnerabili. È come se questa cintura di protezione fosse composta da quattro strati e voi ne togliete uno, fondamentale, quello rappresentato dalla necessità del trattamento vitale. Se, infatti, esso è necessario vuol dire che la situazione è talmente grave che se lo interrompo morirò a breve, come ha detto la stessa Corte nel 2024. Insomma, gli intervenienti, con la loro richiesta di intervento, stanno dicendo: siamo persone che hanno già dovuto superare momenti di grave sofferenza in cui la vita si è presentata come insopportabile, e ci siamo resi conto proprio in quei momenti come sia difficile resistere per continuare a voler vivere. Se voi, dunque, ci togliete ora il requisito del trattamento, fate ricadere l’opzione tra vita e morte soltanto su un nostro atto di volontà, svincolato dalla gravità e dalla progressione della nostra malattia, perché svincolato dal trattamento di sostegno vitale. Cioè lasciate che il nostro atto di autodeterminazione non sia più un atto di autodeterminazione terapeutica, ma un atto di pura libertà di scelta, di pura disponibilità. Questo è il loro ragionamento, è un ragionamento che trova un ancoraggio forte nella sentenza della Corte del 2024.
Cosa si aspetta che accadrà mercoledì?
Ho grande fiducia che la Corte ammetta i quattro malati contrari al suicidio assistito come lo scorso anno aveva ammesso quelli favorevoli, che lo avevano richiesto. C’è una frase molto bella nell’ordinanza ammissiva dello scorso anno: che il diritto di difesa e quindi di partecipazione al processo deve essere garantito al massimo quando si discute di diritto alla vita. Nel caso del 2024, deciso con la sentenza n. 135, la questione coinvolgeva la vita nel senso estintivo del diritto; a maggior ragione, allora, oggi i nostri malati hanno diritto all’ammissione perché la loro posizione è conservativa del diritto alla vita. Ma le dirò di più: anche se io sono fermamente convinto, come giurista, che la vita sia un diritto indisponibile, ho provato soddisfazione quando ho saputo che i due malati che erano favorevoli al suicidio assistito erano stati ammessi nel processo del 2024, perché ritengo che sia doveroso garantire al massimo il contraddittorio quando si discute di posizioni così importanti, come è il diritto alla vita. Il contraddittorio non nuoce al processo, ma può solo aiutare la decisione.
La Corte potrebbe anche non ammettere gli intervenienti al processo e comunque respingere la questione di costituzionalità proposta dal Gip di Milano?
Certo, la Corte potrebbe tenerci fuori e dare comunque ragione a noi nella sostanza. Come dire: non siete parti ma la questione di legittimità è infondata o inammissibile. Però questa soluzione non sarebbe appagante, perché vorrebbe dire che possono entrare nel processo solo quanti vogliono morire, mentre i nostri malati starebbero nel pubblico e non sarebbero parti. Invece loro vogliono essere parte del processo perché sono titolari di un diritto alla vita le cui esigenze di tutela vogliono che siano rappresentate.
Se venisse accolta l’istanza si creerebbe un precedente nei processi su casi di suicidio assistito?
Sarebbe la prima volta che viene accolto l’intervento dei malati che il suicidio assistito non lo vogliono. Ma mi risulta anche essere la prima volta che questo viene chiesto. In definitiva, l’appello dei quattro malati contrari al suicidio assistito è chiaro: vogliono che la Corte costituzionale sia anche il loro giudice, il giudice di chi chiede la conservazione della tutela della vita e non solo di chi vuole più possibilità per chiedere la morte. È un messaggio di grande profondità e di grande portata anche culturale. È come dire: il processo costituzionale, quando si giudica di diritti fondamentali, deve essere la casa di tutti.
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