
Chiamarla “ingiusta” faceva brutto

Il Covid e tutto il suo strascico di preoccupazioni sanitarie, di polemiche politiche, di dubbi sani o insani sulla gestione del periodo pandemico ha di fatto catalizzato l’attenzione di (quasi) tutti: di nient’altro si parla in giro, in ufficio, nelle scuole, nelle università.
(Quasi) tutte le conversazioni iniziano o virano o si concludono sul tema del Covid, come se questo fosse in un certo senso il campo della discussione. Eppure, di campi di discussione ce ne sarebbero altri, alcuni meno importanti, altri sicuramente di maggiore interesse. Proprio l’epoca delle grandi discussioni su tutto, delle enormi possibilità di dire qualunque cosa su qualunque argomento si è ridotta a ripetersi, a irrigidirsi sull’unica cosa.
Made in Ue (cioè Cambogia)
Nel frattempo, ci siamo quasi lasciati sfuggire piccoli dettagli che hanno modificato il terreno sotto i piedi.
“Con la pandemia” siamo diventati sempre più dipendenti da quei fantastici servizi della tecnologia: i servizi del prenoto subito e ricevo in un attimo. I grandi player del delivery ormai sono divenuti dei mezzi coinquilini delle nostre abitazioni: è abitudine, in parte osannata quale grande progresso umano, la possibilità di decidere all’ultimo istante cosa mangiare, ordinandolo con un semplice click (“stasera sushi, ordino io”) e vantarlo per un grande conquista civica. Una comodità quasi gratuita. A fronte di pochi euro, ti consegnano anche le calze di pile il 24 di dicembre, alle ore 23. O le mascherine chirurgiche, rigorosamente made in Ue, ma prodotte in Cambogia.
Ormai, puoi fare tutto dallo smartphone, genialmente progettato. Pagare comodamente il parcheggio dell’auto senza dover andare in giro con sacchi di spiccioli (per fortuna) ma anche prenotare il cibo per cani che ti viene consegnato da un ragazzo pakistano, ormai mezzo italiano, accolto (in casa con la maglietta di una Ong che fa tanto amore per l’Africa), all’una di notte, in cambio di un euro di consegna.
Che bello essere fattorinɘ
Puoi fare tutto, seduto comodamente sul divano dei diritti civili che progrediscono: prenoti il tuo sushi mentre discetti di come sia ancora arretrata l’Italia che un Assessore donna non abbia ancora il diritto di chiamarsi Assessora.
E ti lagni e ti lamenti che in pochi ancora hanno capito il grande simbolo della salvezza umana che è la schwa (ɘ, questa è arricciata, messa al contrario che ci salverebbe da ogni tortura patriarcale).
Non si capisce però quale grande giustizia sociale porterebbe ad una donna che deve lavorare sotto la pioggia per un euro a consegna se anziché chiamarla “fattorino della pizza” la appellassimo col più inclusivo e sostenibile “fattorinɘ”?
Quali sogni nel cassetto tale donna potrebbe realizzare? E quali grandi opportunità di futuro avrebbero i suoi figli?
3 per cento di guadagno
Assopiti dal tepore caldo del divano, abbiamo perso di vista i turni massacranti dei delivery, molti dei quali già ultra 50enni costretti a lavorare per il 3 per cento di guadagno sulle consegne: un welfare assente (con i sindacati maggiormente preoccupati soltanto della quota pensionistica) è il miglior lasciapassare per i grandi inventori del futuro. Tradotto: il capitalismo selvaggio che rende ricchissimi i pochi ed eterni poveracci quasi tutti gli altri.
Senza (voler) saperlo il nostro click sullo smartphone nasconde la grande riproposizione dello sfruttamento: a quelli che conducono concediamo sempre più lussi e sempre più dati su di noi, a quelli che consegnano sempre più rischi. Compresa l’incazzatura per il ritardo sulla pizza.
Dopo la laurea
E mentre eravamo in attesa di aderire ai cookie della sostenibilità, del negozio on line e del kebab consegnato ad ore pasti, il numero di persone in stato di povertà alimentare è andato aumentando anno per anno (dal 2011): ora, in fila alle mense popolari, ci sono soprattutto i lavoratori. Non appena i disoccupati, i senza tetto, quelli che avevamo marginalizzato perché essi stessi (ritenuti da noi) “incapaci” di cogliere le enormi possibilità della vita. No. Ci sono quelli che lavorano. E che magari sono pure laureati. Quelli a cui avevamo detto che studiare non solo è bello ma è pure economicamente vantaggioso, perché una volta laureati avrebbero avuto di più e più in fretta.
Ovviamente nessuno aveva detto loro che dopo la laurea ci sarebbe stato il tirocinio non retribuito, lo stage a 300 euro e un mese gratuito come bonus da elargire al modello della green economy. E un mutuo trentennale. E un kebab da consegnare.
Green per dire ricco
Il tutto mentre le grandi città “avanzate” hanno verniciato i centri storici con la green philosophy, quella per cui monopattini, bici, auto elettriche, sono diventati i veri protagonisti della vita quotidiana. I quartieri ecosostenibili, le case indipendenti, l’energia a basso impatto, gli arredamenti rispettosi dell’ambiente. Che meraviglia! In pratica una filosofia rispettosa del mondo esterno che fa di me, di te, di noi, cittadini modello che guardano avanti e che si meritano anche una bella foto su Instagram che immortali l’avvenuta conversione umana.
Una volta, si sarebbe chiamato ricco colui che costruiva una casa con tutta quella tecnologia. Poi con l’avvento della (finta) pacificazione sociale, l’abbandono del marxismo e il passaggio al Manifesto della mela mangiucchiata, ecco che non ci sono più i ricchi e i poveri, ma i green e i loro oppositori. Green però è un altro modo (più sostenibile) di dire ricco: perché un insegnante di scuola media può permettersi davvero un’auto elettrica a canone mensile o spendere 300 euro nel monopattino se abita a 5 chilometri dal centro, ha dei figli da accompagnare a scuola e deve pagare un mutuo che estinguerà al prossimo scudetto della Pro Vercelli? Mah!
Sostenibilità ed equità
Abitare in centro, in un palazzo col verde obliquo, mentre ordini un etto di Kobe a mezzanotte che ti viene consegnato da un omino/a su un monopattino ad emissioni zero è proprio una bella immagine di futuro e di progresso. Solo che è per pochissimi e a scapito dei tanti.
Senza farla troppo marxiana, non c’è sostenibilità senza equità. Oltre ad essere sostenibile il linguaggio, l’ingranaggio dell’alimentatore del riscaldamento a pavimento, i parquet a spina di pesce che fanno tanto chalet dei film di Vanzina, una bella, cara e vecchia equità economica fa proprio schifo?
La società sostenibile
Lo descrive bene il simpatico film di Pif con De Luigi (E noi come stronzi rimanemmo a guardare) che si prende beffa (finalmente!), del mito della mela mangiucchiata. Poi ci aggiunge la compagnia aerea low-low cost, dove paghi per fare un mezzo viaggio in piedi e un mezzo viaggio seduto, ancora più proletaria (si direbbe una volta) delle ormai “per abbienti” compagnie low cost.
Futurismo? Mica tanto. È la società sostenibile. Perché (come si usa dire oggi) chiamarla ingiusta sarebbe stato troppo.
Foto Ansa
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