Chi sostiene le famiglie siriane di profughi in Libano e Turchia? I ragazzini

Di Leone Grotti
08 Giugno 2016
Molti hanno perso il padre in Siria e già a 13 anni devono lavorare per portare a casa qualche spicciolo per le loro famiglie. A Beirut come a Istanbul
In this Friday, Feb. 19, 2016 photo, Syrian refugee Mohammed Hassan, 8, who fled with his family from Idlib, Syria, rearranges fruits on display for sale at a market in the Palestinian refugee camp of Sabra in Beirut, Lebanon. The U.N.'s children agency, UNICEF, says there are 2.8 million children out of school in the region, and child refugees are particularly at risk of exploitation and abuse, with large numbers being left with no choice but to go out to work, rather than attend school. (AP Photo/Bilal Hussein)

Ali Rajab lavora circa 12 ore al giorno: spazza per terra, riempie boccette di profumo e aiuta a vendere cellulari nel negozio dov’è occupato nella capitale del Libano, Beirut. È contento del suo lavoro perché è meno faticoso del precedente: quando consegnava la spesa a domicilio e spingeva per la città un carretto di frutta e verdura. Rajab è scappato da Aleppo e dalla guerra due anni fa. Ha 13 anni e vive in un piccolo appartamento con i genitori e sei fratelli.

OTTO DOLLARI AL GIORNO. Più di 1,1 milioni di siriani ha trovato rifugio in Libano da quando è scoppiata la guerra nel 2011. La metà di loro è costituita da bambini e anche se alcuni vanno a scuola, altri non possono che lavorare. «Mi piace il mio lavoro, è facile e non troppo faticoso. Poi sono al riparo dal caldo in estate e dal freddo in inverno», spiega all’Associated Press Rajab, che guadagna 8 dollari al giorno, 250 al mese.

«PENSO SOLO AL LAVORO». La situazione di Mohannad al-Ashram, 15 anni, è ancora più difficile. Suo padre è morto due anni fa in Siria e ora tocca a lui mantenere la madre e tre sorelle. Lavora in un piccolo supermercato e con i soldi guadagnati paga l’affitto del piccolo appartamento in cui abitano. «Spesso mi sento molto stanco ma tengo duro. Ora penso solo al mio lavoro».

ANCHE IN TURCHIA. La vita di Mohannad e Rajab è simile a quella di Ahmad Suleiman. Anziché in Libano, vive in Turchia ma la sostanza è la stessa. Suo padre è morto quattro anni fa in guerra e ora tocca a lui lavorare per mantenere la famiglia in un’industria sartoriale di Istanbul. In Turchia vivono oltre un milione di bambini siriani e a migliaia sono costretti a lavorare. «Vorrei mandarlo a scuola, non sa leggere né scrivere e non riconosce neanche le scritte sugli autobus», dichiara la madre Zainab, 33 anni, al New York Times. «Ma non ho scelta. Deve lavorare per sopravvivere».

SFRUTTAMENTO. Il governo turco ha approvato un decreto per permettere ai siriani di lavorare legalmente, favorendo così il lavoro dei genitori per frenare lo sfruttamento dei bambini. Ma solo 10.300 profughi, in base alle nuove regole, hanno ottenuto il permesso di lavorare e i datori turchi preferiscono fare tutto in nero per pagarli di meno. Ahmad guadagna 60 dollari a settimana e quasi tutti servono per pagare l’affitto mensile da 270 dollari. Il padrone dell’azienda spiega di non averlo assunto per sfruttarlo, però, ma per fare un favore a lui e alla sua famiglia.

«SALVARE TUTTI DALLA POVERTÀ». «Mi piace lavorare e non vengo trattato male», dice il ragazzo, che si occupa delle cuciture dei jeans. «Il mio sogno è salvare chiunque dalla povertà, perché sono povero e non voglio che nessuno passi quello che sto passando io. Per farlo so che dovrei andare a scuola ma devo prendermi cura della mia figlia e questo è l’unico modo di farlo».

@LeoneGrotti

Foto Ansa/Ap

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