Lettere su Alfie Evans

Di Redazione
28 Aprile 2018
I giudizi di quattro lettori sul caso del bambino di Liverpool. «E noi in mezzo ad assistere inermi a questi sfondamenti illegali e disumani? No, non esiste»



Il caso Alfie la dice lunga a quale livello siamo arrivati in merito al garantire la prosecuzione della sua vita, seppur in presenza della sua grave patologia di fronte alla quale non vi sono da parte della scienza medica certezze. Quello che più sconcerta è l’atteggiamento dei giudici dell’Alta corte che s’arrogano il diritto di decidere della vita di Alfie. Impedire ai genitori di provare ciò che è possibile al fine almeno di consentirgli un accompagnamento umano, se non vi fosse altra soluzione, è quanto di più contrario ai più elementari diritti umani e in questo modo l’Inghilterra assumerebbe la veste di un Paese dittatoriale, scristianizzato che compie un omicidio di Stato. Anche da noi, ad esempio, le Dat presentano ambiguità per quel che riguarda l’obiezione di coscienza e il trattamento terapeutico nel senso della nutrizione e dell’idratazione che verrebbero considerate come cure farmacologiche.
Pasquale Ciaccio
In queste ore stiamo ricevendo lezioni di Storia come raramente avviene con così tanta chiarezza. Al centro vi sono i genitori, reali o presunti tali. A Torino due donne che pretendono di essere entrambe mamme di una povera creatura che già nasce con gravi handicap socio-etici, sostenute nella loro illegalità da esponenti pubblici, rei confessi, ma coperti da non si sa quale immunità. Poi a Liverpool ci sono due genitori autentici ma esautorati giuridicamente dei loro diritti-doveri di cura e assistenza verso il loro figlio, condannato alla pena di morte in un paese dove detta pena sarebbe stata con orgoglio abolita. A sostenere queste due pazzie sono le stesse linee di “pensiero” moderno e rivendicazionista dell’aria fritta. E noi in mezzo ad assistere inermi a questi sfondamenti illegali e disumani? No, non esiste. Chi ha voce nei media o ad ogni livello esca dal limbo pilatesco e si adoperi per far conoscere, analizzare, smascherare questo “nuovo” modo di barare con la vita e la morte. Forza!
Enrico Ventura
Egregio direttore, in merito alla vicenda di Alfie Evans, il bambino inglese, la cui vita è stata considerata dal giudice che ne ha esaminato il caso, “inutile”, vorrei sottolineare quanto preziosa risulti tale vita, pur minata nella salute e precaria, al fine di farci capire che:
• La concezione oggi comunemente diffusa della vita, fondata sui principi edonistici di benessere e “benstare”, a scapito di valutazioni di ordine superiore, si ritorce, in ultima analisi, contro l’uomo stesso, considerato inutile e superfluo nella misura in cui non riesce ad adeguarsi agli standard prima proposti, poi imposti.
• Ci sono due concezioni di Stato che si fronteggiano e, in questo caso, sono venute a collidere: lo Stato che riconosce i diritti naturali e perciò inalienabili della persona, e si pone al servizio del cittadino per garantirli, e lo Stato che, sembrando riattualizzare la concezione assolutistica del filosofo inglese Hobbes, si arroga tutti i diritti dei cittadini, per farsene padrone assoluto fino a decidere, tramite i suoi giudici, della vita e della morte degli stessi. Ora tale modello di Stato sembra più che mai imporsi e la presente vicenda lo testimonia.
• Anche i tanto conclamati diritti civili, nell’ottica di Stato assolutistico di cui sopra, diventano un cappio, dato che è lo Stato che fonda e definisce ciò che è “diritto” e, nel caso specifico, la soppressione del figlio viene imposta ai genitori riluttanti e disperati, come la salvaguardia di un imprescindibile diritto, “the best interest” del bambino. Si noti, infatti, che, se Alfie fosse un delinquente, condannato per dei crimini, nella felice concomitanza della nascita di un principe reale e del 93esimo compleanno della Regina, potrebbe chiedere e forse ottenere la grazia, ma perché si dovrebbe, per la nascita del royal-baby, privare un suddito-baby del suo sacrosanto diritto (a venire ucciso)? Inoltre anche al condannato a morte che sopravvive all’esecuzione di solito vien conferita la grazia, ma questa ipotesi non è sembrata applicabile ad Alfie, perché, evidentemente si scontrerebbe col suo massimo interesse!
• Tanta enfasi, recentemente riscontratasi anche in Italia, sulla dignità della vita, e sulla possibilità di autodeterminazione dell’individuo, ha rivelato spietatamente, in questa vicenda, l’intendimento ultimo sotteso, cioè l’attribuzione allo Stato del compito di definire in cosa consista la dignità della persona, anche contro il parere dello stessa, qui interpretato ed espresso non solo dai genitori, ma anche dal bambino, che, con tutti i mezzi a sua disposizione, ha manifestato evidentemente la sua volontà di sopravvivere.
• La presunta infallibilità della scienza e competenza dei medici si sono dimostrate quanto meno discutibili, dato che il bambinetto, che sarebbe dovuto morire un quarto d’ora dopo l’interruzione della respirazione assistita, è incredibilmente sopravvissuto respirando autonomamente per una intera notte. Il che getta ombre inquietanti anche sull’infallibilità del verdetto finale dei medici, (che oltre tutto non hanno ancora formulato una diagnosi che definisca la malattia di Alfie) e che se fossero un po’ più, non dico umili, ma almeno realisti, dovrebbero sentirsi messi in discussione, e accettare il confronto con altre equipe mediche.
• Tutte queste conseguenziali osservazioni, magari con declinazioni leggermente diverse, ma uguali nella sostanza, le può far ogni persona correttamente informata sul caso (da qui la reticenza e poi l’imbarazzo dei mezzi di informazione a parlarne), perché, sarà che siamo italici, di fronte alla vita di un bambino destinato a morire di fame, di sete e per soffocamento, e a due straziati e strazianti genitori che cercano in tutti i modi di salvarlo, facciamo un po’ fatica a credere che si tratti di qualsivoglia “best interest”.
• Alfie, a cui lo Stato inglese assicura (sembrerebbe tragico english humor) “comfort, dignità e privacy” nell’applicazione del protocollo di morte previsto e ostinatamente applicato, va adesso più che mai eliminato perché, seppur fragile, destinato a morire e “inutile”, questo bambino, come nella nota favola, addita il re urlandogli, ogni giorno di più, che è inesorabilmente nudo.
Giovanna Cupani
Vi regalo questo articolo che ho scritto, se volete pubblicarlo.
Alfie Evans ovvero come il positivismo giuridico ci ammazzerà tutti per asfissia.
1. IL PARADOSSO DI ANTIGONE
Tutti o quasi tutti abbiamo presente Antigone, la tragedia di Sofocle che già duemilacinquecento anni fa anticipava il dramma della contemporaneità.
Fuori dalle mura di Tebe, due fratelli, Eteocle e Polinice, si erano affrontati per il potere, in uno scontro finale il cui risultato era stata la morte di entrambi. Il nuovo re, Creonte, della fazione di Eteocle, aveva ordinato che soltanto ad Eteocle fossero concessi gli onori funebri mentre il corpo di Polinice sarebbe dovuto rimanere sulla strada, alla mercé di cani ed uccelli, a monito dei cittadini della Polis. “Questo è il destino di chi si ribella al potere”. Chiunque avesse contraddetto al decreto del re sarebbe stato punito con la morte.
Antigone è la sorella di Eteocle e Polinice, ed è fedele al re Creonte. Ma osserva un’altra legge: la legge morale che le impone di dare sepoltura a suo fratello. Così, disobbedisce all’ordine del Re e viene condannata a morte. È l’eterno conflitto fra la legge morale (gli “agrapta nomina”: le “leggi non scritte”) e la legge del sovrano (il “nómos”).
Antigone muore, trascinando nella sua morte anche il figlio e la moglie di Creonte, che si suicidano per la vergogna. Creonte vince ma rimane solo. Solo e disperato.
Per Sofocle appare chiaro che una legge del sovrano che sia completamente distaccata dalla legge “morale” è foriera solo di disperazione. La norma, quando non tiene conto dell’uomo, non solo non salva né l’Io né la Polis ma conduce al caos (al caos familiare, in questo caso) ed alla disperazione.
Il paradosso di Antigone è così semplicemente riassumibile: il nómos è più forte e, in ragione della sua forza, vince. Ma, al contempo, è fonte di disgregazione, sia per l’Io che per la Comunità, quando non tiene conto degli agrapta nomina.
2. IL PARADOSSO DI KELSEN
Nella sua “Introduzione al Cristianesimo”, che – credenti o non credenti – rimane una delle opere filosofiche a caposaldo del Novecento, Joseph Ratzinger traccia una genealogia della crisi del “reale” di grande lucidità. In particolare, colui che sarebbe diventato Benedetto XVI individua come punto di svolta della storia l’elevazione della téchne, dell’abilità artigiana da mero strumento di conoscenza delle cose umane, il cui studio non era concepibile se non come prodromico allo studio dell’Essere, del Lógos, della Realtà in quanto tale, ad unico elemento degno di essere studiato. Ratzinger individua intorno alla metà dell’Ottocento il passaggio decisivo dall’assunto “verum quia factum” (“è vero poiché c’è”) all’assunto “verum quia faciendum” (“è vero poiché si può fare”). È la nascita del positivismo.
Nello studio del diritto, il riflesso più clamoroso di questo passaggio è la nascita di una dottrina del diritto “puro”, una dottrina della norma. In buona sostanza, al giurista contemporaneo non interessa più la ricerca della consonanza fra la norma e la realtà. La norma diventa il centro della problematica giuridica e non è più valida solo se e in quanto “giusta” ma solo e se in quanto emanata in conformità con una serie di principi formali che la rendano autoritativa. E, accanto a questo, la giustizia come concetto astratto, come ha rilevato il filosofo Giorgio Agamben, veniva via via sostituita da un altro concetto, anch’esso di stampo tecnicista: il principio di “economicità”.
La sublimazione di questo passaggio storico si raggiungerà ad inizio Novecento con la “dottrina pura del diritto” di Hans Kelsen. Come ai tempi del rasoio di Occam, Kelsen effettua la cesura definitiva fra “diritto” e “giustizia”. La giustizia fa riferimento ad un sistema morale, totalmente scevro dalla sfera dell’autorità dello Stato, mentre il “diritto” non ha nulla a che fare con quel sistema morale. Una norma, per essere valida, non ha più bisogno di essere anche “giusta” (ma neppure socialmente accettata): basta che quella norma rispetti quei criteri formali che la rendano valida ed efficace, giusta o non giusta che essa sia.
È chiaro che la dottrina di Kelsen ha una diretta conseguenza: il diritto diventa mero esercizio della forza. Chi avrà la forza per raggiungere il potere ed emanare una norma positivamente valida, potrà legittimamente esercitare il suo imperio non curandosi affatto della giustizia o meno del suo nómos. Se, poi, a questo esercizio della forza verrà applicato congiuntamente anche il criterio di “economicità”, l’esercizio del diritto diverrà un mero esercizio tecnico, spersonalizzato e disumano.
Qual è il paradosso di Kelsen, in definitiva? Hans Kelsen era tedesco ed ebreo. Nel 1933, in seguito all’inizio delle persecuzioni raziali della Germania nazista, dovette lasciare il proprio paese rifugiandosi in Svizzera. Eppure non rinnegò mai le sue teorie: ritenne sempre che il suo esilio fosse stato disposto in seguito all’emanazione di una norma valida ed efficace. Eppure profondamente ingiusta, aggiungiamo noi.
3. IL PARADOSSO DI ALFIE EVANS
Le cose che avete letto finora vi sembrano astratte? Non lo sono affatto. Anzi, il dramma di questi paradossi si sta consumando nella carne e nel respiro flebile di un bambino inglese, gravemente ammalato e difficilmente curabile.
Alfie Evans è un bambino di un anno e mezzo, figlio di una coppia di ragazzi giovanissimi e di ceto sociale non particolarmente agiato, malato e senza diagnosi. Ha una forma di epilessia gravissima e sconosciuta, che ne ha danneggiato gravemente i tessuti cerebrali. Non è recuperabile e sino a ieri respirava grazie ad un ventilatore. È ricoverato in un ospedale di Liverpool.
Nel sistema sanitario inglese vigono una serie di protocolli che impongono che, di fronte ad una situazione irrecuperabile, e di concerto con la famiglia del minore, ai bambini malati in fase terminale possa essere sospeso l’apporto della ventilazione e della nutrizione, portandoli alla morte. Tuttavia, in questo caso, la famiglia si è opposta ad una simile soluzione. Da un lato i medici affermavano che il prolungamento dell’esistenza di Alfie sarebbe consistito solamente nel prolungamento delle sue sofferenze, dall’altro la famiglia affermava che il bambino non fosse soltanto un corpo morto, che potesse respirare da solo e che avrebbe desiderato un accompagnamento alla morte naturale tramite cure palliative. La famiglia aveva trovato la disponibilità di eccellenze pediatriche europee che avrebbero preso in cura il bambino, in parte per studiarne la patologia ed in parte per accompagnarne le ultime fasi della vita.
I protocolli di cui sopra, in caso di discordanza fra parere medico e parere dei genitori, impongono che sia un giudice a risolvere la controversia utilizzando il criterio del “migliore interesse del minore”.
Al di là del contenuto della nozione di “miglior interesse” (ci si chiede come si faccia a definire la morte come “miglior interesse” ma questo è un altro spunto di riflessione che qui non interessa), quello che sorprende è la necessità di ricorrere ad un giudice per giudicare una controversia simile. A fronte della disponibilità di ospedali esteri a prendere in cura Alfie a costo zero per l’ospedale di Liverpool, il rispetto a tutti i costi del protocollo, a discapito della volontà della famiglia e ammantandolo ideologicamente con il principio del “miglior interesse” evidenzia in tutta la sua grandezza gli effetti mostruosi di una concezione solo ed esclusivamente positivistica di una norma (ed il protocollo è a tutti gli effetti una norma).
Così, il Giudice, inevitabilmente, non ha disapplicato i protocolli e ha disposto il distacco del ventilatore che teneva in vita Alfie. I medici avevano detto che il bambino sarebbe morto in pochi minuti. Ma siccome “verum quia factum”, siccome come diceva Giorgio Gaber “la realtà è più avanti”, Alfie non è affatto morto ma ha iniziato a respirare da solo. E ha respirato da solo per ore.
Il protocollo, dunque, non era più valido. La realtà aveva sconfessato la téchne dei medici e dei giuristi. Ma come procedere?
Si è posto un nuovo problema: i giudici avevano affermato che il “miglior interesse” del bambino sarebbe stato quello di morire in quanto i centri nervosi erano irrimediabilmente compromessi, compresi quelli che controllavano la respirazione. E, a fronte del fatto che il reale aveva smentito i protocolli medici, e che, oltretutto, ci sarebbero stati degli ospedali fuori dalla giurisdizione inglese pronti ad accogliere Alfie l’unica soluzione sarebbe stata che la Giustizia inglese fosse tornata sui suoi passi.
Il tornare sui propri passi, però, avrebbe avuto una conseguenza: la Giustizia (il nome assegnato ai giudici inglesi è emblematico: “Mr. Justice”, “Signor Giustizia”) avrebbe dovuto delegittimare la propria autorità e l’autorità di quella “tecnica giuridica” esercitata con le proprie sentenze. E se c’è una cosa che la cultura positivistica, di cui siamo tutti imbevuti, non potrà mai accettare, è proprio quella di ammettere la fallibilità della tecnica giuridica.
A questo si unisce il devastante concetto dell’economicità: una vita è degna di essere vissuta solo se “utile”. La sofferenza non è contemplata nel concetto di utilità: pertanto, mantenere in vita un essere “inutile” è anche “antieconomico” in quanto peso inutile sul bilancio dello Stato. E, infatti, una delle critiche giunte dall’Italia, dove sia il Bambin Gesù di Roma sia il Gaslini di Genova si erano detti disponibili ad accogliere Alfie, è stata proprio quella relativa ai costi per la collettività che avrebbero avuto le cure palliative per una vita sostanzialmente “inutile” (si vedano, per esempio, le critiche di Michela Marzano su Repubblica, quelle sul Fatto Quotidiano e sulla potente testata Wired).
Così, il Giudice non ha esitato a sacrificare sull’altare del giuspositivismo di stampo economicistico anche un bambino indifeso e malato.
Ecco il terzo, definitivo e terribile paradosso, il paradosso di Alfie, vivo nonostante i pareri dei medici, dei giudici e della tecnica. La verità che se ne trae è solo una: o il diritto torna ad essere uno strumento al servizio dell’uomo o fra poco inizieremo ad innalzare altari all’unico vero simbolo religioso che rimarrà in piedi: la Tecnica.
Il che certificherà la morte dell’uomo. Definitiva, inesorabile e crudele. Per asfissia, come quella di Alfie Evans.
Gabriele Gatto
Foto Ansa

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