
Chi era Charles Péguy, cronista del pensiero di Cristo

Un altro libro su Charles Péguy? Sì, per fortuna, perché in italiano non esiste la traduzione delle sue opere complete. Affinché l’attualità del fondatore dei Cahiers de la Quinzaine sia vissuta come tale nel mondo che parla e legge in italiano, è indispensabile che qualcuno ce la faccia conoscere e riconoscere proponendoci nuove sintesi e nuovi approfondimenti.
È la volta di Agostino Molteni, brianzolo, sacerdote missionario da più di vent’anni in America latina, docente di Letteratura e di Teologia all’Università Cattolica di Concepciòn in Cile, di farci conoscere il Péguy cronista del pensiero di Cristo, definizione che lascerà sbalordito più di uno.
Un pensiero è un avvenimento
Sotto il titolo Il pensiero di Cristo – La logica dell’incarnazione redentrice secondo Charles Péguy, Molteni conduce il lettore a scoprire o a riscoprire che per Péguy il pensiero stesso è avvenimento, ché se non lo fosse non sarebbe autenticamente pensiero.
La famosa frase di san Paolo nella prima lettera ai Corinti che lascia perplessi i cristiani assetati di una fede esistenzialmente interessante, «noi abbiamo il pensiero di Cristo», in Péguy diventa il naturale modo di esprimersi di quell’”anima carnale” che è l’uomo. Senza la certezza che l’uomo è un’”anima carnale” e senza la consapevolezza che il pensiero è veramente pensiero solo se è avvenimento, non si capisce Péguy.
Essere solo Dio
Il libro è suddiviso in due parti e un epilogo. Nella prima parte è sintetizzata la genesi del pensiero di Péguy, che si abbevera alla tradizione francese ed ebraica, a Giovanna d’Arco, a Corneille e a Henri Bergson; nella seconda si descrive la parabola del pensiero di Cristo dalla nascita alla Resurrezione e Ascensione col corpo in Cielo.
Basta una mezza pagina di citazione per rendersi conto della sconvolgente originalità di Péguy, che sembra anticipare la Teodrammatica di H.U. von Balthasar: «Cristo fece la sua resurrezione perché aveva pensato che era conveniente e soddisfacente per lui riprendersi il corpo in cui si era compiaciuto, in cui si era trovato bene. Non aveva voluto che la morte interrompesse per sempre il movimento continuo d’incarnazione che era iniziato dalla Trinità. (…) Aveva “vinto la morte” non per un meccanismo divino, né per la sua onnipotenza, bensì perché aveva pensato, dopo i trentatré anni d’incarnazione terrena, che solo in quanto uomo e non semplicemente come Dio poteva essere pienamente soddisfatto. L’alternativa era quella di tornare ad essere solo Dio, seulement Dieu. Se il corpo di Gesù si era mosso secondo la certezza di un pensiero, vale a dire la soddisfazione di essere uomo, non si doveva considerare straordinario che avesse ripreso il suo corpo. Resuscitando, non voleva essere banalmente immortale, non gli interessava assolutamente una povera sopravvivenza eterna e dell’anima. A Gesù interessava piuttosto la vita eterna del suo corpo, che aveva sofferto la morte». (p. 172)
Passare per il presente
Tutto in Péguy è dramma, sviluppo, movimento, durata; e il pensiero nasce da tale drammaticità, il pensiero è «un avvenimento di cui essere testimone e cronista» (p. 21).
In ciò i suoi maestri sono lo storico Jules Michelet, «che afferma di non aver imparato da studi particolari, ma da rapporti d’amicizia, da vicini di casa, dalla strada» (p. 21), e il filosofo Henri Bergson: «Bergson gli aveva insegnato l’accadere dell’essere e del pensiero, lo aveva salvato dalle pastoie dell’”essere già fatto” e dal “divenire” della filosofia greca. Gli aveva insegnato il tempo bergsoniano, il tempo del presente che è “un punto di natura e un punto di pensiero”. (…) Se tutto deve passare da questo punto d’essere e di pensiero che è il presente, l’incarnazione era stata realmente integrale poiché “lo stesso Gesù, essendo uomo e temporale, era passato per il presente”. Solo se si ammetteva che Gesù era passato per il presente, si poteva riconoscere la libertà del suo avvenimento». (pp. 58-59)
Chiudersi nelle sacrestie
In Péguy l’essere, l’anima e il pensiero sono avvenimento: «Per Péguy, “un anima già fatta (tout fait) è un’anima morta, mummificata, non è libera, è piena d’abitudine, poiché non possiede un atomo di materia spirituale per farsi (pour du se faisant)”, cioè per accadere», e tali erano le anime senza corpo dei curati e dei filosofi neoscolastici, avversati da Péguy tanto quanto avversava i cristiani moderni e modernisti.
In effetti non andrà d’accordo con nessuno degli intellettuali cattolici suoi contemporanei: né con Paul Claudel, né con Jacques Maritain, né con Leon Bloy. Lui, che scriveva che «conoscere significa conoscere in comunione», è stato un solitario dall’inizio alla fine, riscoprendo e vivendo attraverso la sua ragione laica e la sua educazione cristiana dell’infanzia la fede che aveva lasciato a 18 anni.
Invece resta attuale per i cristiani di oggi: «(…) ai cristiani moderni, devoti, spiritualisti e religiosissimi, cioè squilibrati, aveva mostrato il pensiero sano di Gesù, che poteva sanarli dalle psicopatologie religiose. Lui infatti non era stato un angelo e non si era servito per la sua incarnazione e redenzione di mezzi fraudolenti, soprannaturali, che gli avrebbero evitato essere un’anima carnale come quella di tutti gli altri uomini. I cristiani moderni potevano così imparare da Gesù che non è sminuendo l’uomo che si esalta Dio, che non bisogna fuggire dal mondo e chiudersi nelle sacrestie di gruppi e comunità in cui auto-convincersi di essere cristiani prendendo coscienza di certi contenuti spirituali. Inoltre potevano imparare che non c’era nessuna contraddizione tra amare Dio e amare l’uomo, perché Gesù era Dio che aveva amato gli uomini, che li aveva stimati, che li aveva considerati come un profitto poiché non aveva voluto rimanere solo Dio (seulement Dieu), ma aveva desiderato essere uomo come loro». (pp. 246-47)
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