La preghiera del mattino

Chi confonde il conservatorismo col populismo non capirà mai il caso Giorgia Meloni

Giorgia Meloni
Foto Ansa

Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «Adesso, i populisti al governo fanno più o meno quel che farebbero tutti. Spaccano il capello in quattro. Contano i soldi fino all’ultimo centesimo. Prendono decisioni discutibili per definizione, ma in fondo razionali, come non tornare a tagliare le accise sulla benzina perché quei soldi e quelle entrate servono anche per trovare risorse “per i meno abbienti”. Hanno la fortuna, i populisti di governo di oggi, di avere davanti un’opposizione che nella sua componente parlamentare più numerosa pensa soprattutto alle regole del suo congresso (lo dice Enrico Letta, probabilmente quindi è vero), e questo è un bel vantaggio. L’altro – ormai consolidato – è quello di un giornalismo che non fa domande, e così si evita la fatica di dover elaborare le risposte. Davanti, tuttavia, a Giorgia Meloni, resta una sfida, che è anche un grande dubbio: sopravviverà alla propria normalizzazione che lei stessa ha deciso e voluto? Il caso della benzina è solo uno, di fatto il primo che impatta direttamente su dinamiche che generano consenso e dissenso. Se le promesse rimangiate diventassero molte, e tutte risultassero dolorose per i suoi elettori, che effetti avrebbero sul consenso? Soprattutto: che effetto farà nel lungo periodo la trasformazione di chi ha urlato per anni, e adesso per anni si appresta a parlare con pacatezza spiegando la complessità? Non lo sappiamo. È una terra straniera per tutti. È una domanda cruciale, anche per il futuro sostanziale della democrazia italiana e non solo. La risposta interessa moltissimo a Meloni. Ma, non di meno, interessa a noi».

Come al solito Tondelli fa un’analisi puntuale e intelligente della situazione politica, e, all’interno di questa, dei rischi che corre Giorgia Meloni. Forse però eccede nell’usare la categoria del “populismo” come spiegazione degli orientamenti della destra. In Italia, con larghe sintonie innanzitutto europee (e in parte tra i repubblicani alla Ron DeSantis negli Stati Uniti) si sta definendo una cultura “conservatrice” che certamente flirta con posizioni demagogiche più o meno definibili “populistiche”, ma che ha (tende ad avere) un suo profilo culturale e una sua specifica visione politica. Quando Stefano Bonaccini dice che, se eletto segretario, la prima cosa che farà sarà incontrare la Meloni, in qualche modo riconosce questa realtà. Il governatore dell’Emilia-Romagna (magari anche grazie a Unipol e Conad) è uno dei pochi politici di sinistra veramente autonomi dall’imperversante borghesia compradora italiana e dal connesso sistema di influenze straniere che tende a trasformare tanti politici italiani in capi di compagnia di ventura estero-dipendenti (il Qatargate è l’esempio più eclatante ma non più significativo di questo processo). Un’Italia in cui destra e sinistra avessero una visione liberaldemocratica ma salda degli interessi nazionali è forse un po’ l’ultima speranza.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Maurizio Milano scrive: «Il governo ha prestato giuramento nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo scorso 22 ottobre, con tempi strettissimi per definire la manovra finanziaria in tempi utili per evitare l’esercizio provvisorio. Sarebbe quindi ingeneroso avanzare critiche a un provvedimento preso in tempi record, per di più in un contesto di grave crisi energetica ed economica, di risalita dell’inflazione a livelli che non vedevamo da molti decenni, con un debito e una spesa pubblica, esplosi durante la gestione Covid, che lasciano davvero pochi spazi di azione. Senza dimenticare i pesanti vincoli esterni, a partire dall’avanzamento degli impegni previsti con la Commissione europea per potere accedere ai finanziamenti stanziati nel Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dopo dieci anni di governi tecnici, e almeno sessant’anni di statalismo clientelare, sarebbe ingenuo sperare di potere cambiare le cose dall’alto e in tempi rapidi, per poi imputare al nuovo governo mancanze in tal senso. Chi non vuole patire delusioni non si faccia illusioni, quindi. Dobbiamo innanzitutto rinunciare all’aspettativa che sia sempre il governo, qualsiasi governo, a “fare”: forse il primo dovere di un governo è proprio quello di “non fare”, nel senso di “non fare danni”, riconoscendo il proprio ruolo, e quindi i propri limiti, in ordine al bene comune».

Per capire come si stia costruendo in Italia un’autonoma cultura conservatrice che attira parte rilevante del mondo cattolico e di ex democristiani stanchi di fare gli ultimi mohicani e impegnati a recuperare il moderatismo sturziano in politica, è utile leggere anche queste righe di Milano.

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Su Dagospia si scrive: «Non basta a ricondurre all’unità la trovata degli “Appunti di Giorgia”, che evocano più le pazzarìe di Salvini su TikTok che un progetto di comunicazione istituzionale esaustivo. Non sono pochi gli “addetti ai livori” che riconoscono alla Meloni pochi errori politici, finora, e fin troppi scivoloni nella gestione della macchina comunicativa di Palazzo Chigi».

Ecco un’osservazione intelligente: se la politica è giusta, la comunicazione la può rovinare. Il fatto è che non si può separare “politica” e “comunicazione”, se quest’ultima diventa solo appiattimento sui social e non si coordina con i processi concreti della politica (cioè rapporti con le posizioni assunte nel passato, rapporto con l’elaborazione culturale delle proprie posizioni, rapporto con gli alleati, rapporti con le proprie basi sociali non escludendo benzinai, camionisti e tassisti, una linea di dialogo con l’opposizione che non favorisca pericolose nicchie di interdizione opportunistica), diventa come una droga: più se ne consuma più diventa indispensabile e distrugge il tuo organismo.

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Su Strisciarossa Pier Virgilio Dastoli scrive: «Nel mondo conservatore europeo molto più che nella sinistra prevale sempre di più l’idea della dimensione confederale dell’Unione Europea e cioè della difesa degli interessi nazionali, una difesa legata al concetto di nazione come dimensione territoriale di un inesistente spazio occupato da una sola etnia. Nasce da questa concezione conservatrice l’epifora reazionaria di Giorgia Meloni su cui avrebbero deciso di adagiarsi anche Carlo Calenda e il suo “partito della nazione”, prefigurando l’ipotesi che nel 2024 il suo terzo polo possa aggrapparsi al carro considerato vincente del Ppe e dell’Ecr se Italia viva accetterà di tradire la storia cosmopolita ed europeista della sua adesione alla famiglia liberale dopo aver abbandonato quella socialdemocratica in cui Matteo Renzi aveva condotto il Pd. I rapporti tra Carlo Calenda e il centrodestra italiano sono solo un piccolo tassello nel vortice delle alleanze europee che iniziano a comporsi in vista delle elezioni europee nel maggio 2024 e di cui gli incontri romani fra Manfred Weber e Giorgia Meloni sono stati un assaggio, sapendo che non tutto il Ppe è ancora pronto a scegliere la via di un governo con le destre estreme in Europa in una convergenza che è impensabile in Polonia, in Belgio, nei Paesi Bassi ma anche in Germania fra la Cdu e la Csu da una parte e Afd dall’altra».

Non si possono non condividere alcuni sentimenti di fondo di Dastoli: innanzi tutto la strenua difesa del ruolo che l’integrazione europea ha giocato economicamente e democraticamente nel nostro continente e nel mondo. D’altra parte pare di leggere in alcune sue riflessioni quasi un rifiuto dei processi storici nella loro concretezza. L’idea di liquidare il concetto di nazione come essenzialmente razzistico, cioè la difesa di una non ben precisata etnia, e non come espressione di civilizzazioni ben reali e operanti, è primitiva e impedisce di risolvere il nodo di quale istituzione sovranazionale gli Stati aderenti all’Unione Europea possono darsi istituzionalmente e non solo funzionalmente.

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