Che fretta c’era, maledetta primavera (i dolori della vecchia Quercia)

DAI GIROTONDI DI MORETTI AL PARTITO DEL CORRIERE SONO ANNI CHE I DS OBBEDISCONO A PROGETTI POLITICI ALTRUI. TURCI, SOAVE E DI SIENA CI SPIEGANO LA CRISI DEL BOTTEGHINO

Probabilmente il 9 e 10 aprile le urne riserveranno ai Democratici di Sinistra un risultato di tutto rispetto. Secondo la maggior parte dei sondaggi sono attestati tra il 20 e il 22 per cento, e in ogni caso dovrebbero più o meno doppiare la Margherita, secondo partito della coalizione di centro-sinistra. Le ultime regionali, poi, hanno dimostrato che la Quercia ormai è diventata formazione politica centrale non solo nelle cosiddette regioni rosse, ma anche in Lazio, Piemonte, Calabria. Eppure, proprio nei giorni del rush finale pre-elettorale, anziché approfittare del vento favorevole, la volata dei Ds sembra essere ostacolata da un fenomeno crescente abbastanza inedito per un partito che vanta discendenza diretta dalla corazzata comunista: il dissenso. Un dissenso che, in alcuni casi noti, è arrivato alla defezione. E che evidentemente non può essere seppellito come un comune maldipancia da candidatura mancata, visto che a mollare il Botteghino per la Rosa nel pugno ci sono anche il senatore Lanfranco Turci, ex presidente della Lega delle cooperative cui Fassino meditava di riservare un posto nell’eventuale esecutivo, Biagio De Giovanni, politologo da sempre vicino a Pci e poi Ds, e Maurizio Mian, proprietario del 20 per cento del giornale dei Ds che – parole sue – schiererà un quinto dell’Unità con Pannella e Boselli.
«Io ho l’impressione che i Ds stiano dimostrando un’incapacità di iniziativa politica», spiega Turci a Tempi. «Avevo già criticato il silenzio che è calato nel partito subito dopo il referendum contro la legge 40. Ora, però, Rutelli sta prendendo iniziative molto spregiudicate a 360 gradi. Ad esempio a dicembre ha presentato una proposta di legge volta, dal mio punto di vista, a peggiorare ulteriormente le norme fissate della legge 40 in materia di ricerca scientifica; poi, sul piano delle candidature, ha messo in lista Valerio Zanone, un liberale e laico ben noto, insieme a Paola Binetti, la presidente del Comitato Scienza&Vita, che al referendum ha fatto la campagna per l’astensione. Bene, posso anche capire la preoccupazione di tenere in piedi l’unità della coalizione, ma mi chiedo, possibile che noi Ds non abbiamo nulla da dire?».
La sensazione in effetti è che la Quercia guidata dal segretario Piero Fassino si stia riducendo a una sorta di ufficio organizzativo tutto impegnato a tentare di instaurare relazioni con un establishment economico che non ne vuole sapere e mantenere unite realtà locali sempre più forti, capitanate da personalità sempre più autonome. Anche nel panorama nazionale, ormai, i Veltroni, i Chiamparino, i Cofferati, i Bassolino contano più dei vertici del partito. E la stessa incapacità di controllo è emersa recentemente anche in occasione della fallita scalata bancaria di Unipol, con i Ds che in parte facevano il tifo per Consorte e in parte fuggivano spaventati.
Il primo sintomo evidente della malattia, però, è saltato fuori proprio in occasione della battaglia referendaria, quando Fassino consegnò la campagna del partito nelle mani di Barbara Pollastrini, moglie del direttore generale di Sanpaolo Imi Pietro Modiani, che fra i banchieri che contano è forse l’unico con cui il segretario Ds può vantare un certo rapporto. Ebbene, quella campagna, che la Pollastrini condusse con toni molto “radicali”, costrinse la Quercia a subire l’iniziativa pannellian-capezzoniana e si rivelò un autentico fallimento, perfino nelle regioni rosse.

L’OPA DEL SALOTTO BUONO
La stessa identica inerzia politica, la medesima incapacità di creare dibattito all’interno del partito – si sfoga Turci – i Ds la manifestano nel rapporto passivo che hanno avuto finora nel rapporto con il nascente partito democratico: «Proprio l’esperienza del referendum ha fatto emergere che c’è un problema irrisolto. E se non si risolve quel problema il partito democratico non nascerà mai. Il punto è l’elaborazione della comune matrice e base liberale». Il punto, dice Turci, è che i Ds non sono più il luogo di quella discussione politica da cui nasce una visione dello Stato: «I partiti non possono nascere solo per affinità programmatiche su un punto o un altro. I partiti, nonostante tutto il male che di loro si può pensare, nascono solo se hanno prima di tutto una ispirazione culturale. Ora, l’osservazione che io ho maturato, io che sostenevo il partito dei riformisti addirittura quando questa nei Ds era ancora un’ipotesi di minoranza, è che se non risolviamo il nodo culturale noi non vedremo mai nascere il partito democratico. A meno che non pensiamo che debba essere una sommatoria di lobby, di gruppi di potere attorno a questo o quel notabile politico. Ecco perché ho scelto di candidarmi in un partito del 3-4-5 per cento: se i temi portati avanti dalla Rosa nel pugno acquisteranno un po’ più di forza forse potranno anche servire a riaprire un dibattito di prospettiva in tutta la sinistra».
Oltre alle speranze dei fuoriusciti, però, intanto al Botteghino resta solo la constatazione che negli ultimi anni nessuna delle grandi iniziative politiche della sinistra italiana è stata intrapresa dal maggior partito della compagine. Dagli scioperi generali ai girotondi, dal referendum contro la legge 40 al partito democratico, lo stimolo per la discussione dalle parti di Fassino, D’Alema e compagnia è sempre arrivato da fuori. Vuoi da Cofferati, vuoi da Nanni Moretti, vuoi da Bertinotti, vuoi da Pannella, vuoi dal Corriere della Sera. Per Sergio Soave, che ai tempi del Pci era dirigente “migliorista” della Lega delle cooperative milanesi e oggi è editorialista di Avvenire e del Foglio, «l’impasse deriva dal fatto che nei Ds ormai la direzione pensa solo a come conservare il potere, ma non è più capace di raccontare storie alla gente. È questo che lamentano Turci e gli altri transfughi». L’attuale remissività della Quercia rispetto all’Opa politico-economica lanciata sul partito da Carlo De Benedetti e Luca di Montezemolo «è dovuta semplicemente al fatto che c’è un ceto dirigente che contro quell’establishment ha perso una battaglia importante (la partita Unipol-Bnl) e tuttavia tiene ancora saldamente in mano sia le leve del potere interno al partito sia il primato nella coalizione di centro-sinistra, e di conseguenza il volante di un futuro governo. Il problema è che devono capire come diventare un vero partito doroteo, cioè come governare insieme al partito dei miliardari. È una crisi tutta interna, quella dei Ds. Un processo di secolarizzazione».

IL CORRENTONE NON CI STA
Il senatore potentino Piero Di Siena, membro del Correntone di Cesare Salvi e Fabio Mussi, è ancora più radicale: «Come rappresentante della sinistra Ds naturalmente io sono contrario alla costituzione del partito democratico. La ritengo una scelta non corrispondente al ruolo che i Democratici di sinistra dovrebbero reclamare per sé nella coalizione, ovvero quello di fautori di un’unità costruita sull’asse tra la sinistra e un centro democratico». Detto questo, però, anche a Di Siena è impossibile non ammettere come, rispetto alle prospettive future dell’Unione, faccia una certa impressione l’iperattivismo di alcune frazioni nel paragone con l’inerzia del Botteghino: «In effetti c’è un maggiore protagonismo di Prodi e dei suoi, perfino da parte di Rutelli, che a suo tempo si era messo di traverso al processo di convergenza fra Margherita e Ds. Comunque, ripeto, a differenza di quello che pretendono Fassino e D’Alema, il partito democratico è in contraddizione con la funzione di rinnovamento che i Ds dovrebbero svolgere nella nostra sinistra politica, che affonda le sue radici nella tradizione comunista e socialista». E questa specie di sacrificio diessino in nome di una causa che è sì democratica e liberal, ma che (soprattutto per i Radicali e per lo Sdi) è anche piuttosto «contigua alla cultura liberista prevalente», conclude Di Siena, «è una scelta che ha le sue ragioni. Ma mi pare del tutto evidente che in questo ipotetico partito democratico non sarà il gruppo dirigente dei Ds ad avere la primazia».

Exit mobile version