Il Deserto dei Tartari

Che cosa spinge i soldati ucraini a dare la vita in guerra?

Un soldato in guerra nell'est dell'Ucraina
Un soldato in guerra nell'est dell'Ucraina

Nemmeno i più esperti e coraggiosi inviati speciali riuscirebbero a farsi rispondere schiettamente. Che cosa spinge i soldati ucraini a dare la vita sui fronti della guerra con la Russia, a sacrificarsi a migliaia col solo evidente risultato di rallentare un’avanzata che appare ineluttabile? Secondo i media, i russi sparerebbero 50 mila obici al giorno contro le postazioni ucraine, che rispondono con un volume di fuoco dieci volte inferiore. I soldati più esperti sono in gran parte fuori combattimento dopo quasi quattro mesi di guerra, e il loro posto è preso da reclute che non sono preparate per un conflitto come quello in corso. Ciò rende di giorno in giorno più luttuoso il bollettino dei caduti.

La libertà, la patria

La data prevista in cui l’inerzia della guerra cambierà a favore dell’Ucraina, per estenuazione delle forze russe e per l’arrivo di armi sempre più efficaci di produzione Nato nelle mani degli aggrediti, si sposta sempre più in là e diventa sempre meno credibile. La Russia può ancora moltiplicare per dieci il suo grande potenziale distruttivo, in caso di stallo può sempre decidere di vendicarsi della mancata vittoria sul campo con l’uso punitivo di armi non convenzionali, di cui dispone in abbondanza. E allora perché – al di là delle puntuali cronache di diserzioni e di proteste contro l’incoscienza dello Stato maggiore che pretende di schierare forze che non sono in grado di resistere – l’olocausto di giovani e meno giovani che vanno al fronte e periscono continua, sempre più attutito nei media, sempre più doloroso nella realtà.

Non possiamo fidarci delle risposte nei bollettini del ministero della Difesa o nelle dichiarazioni del capo dello Stato, né di quelle tipiche dei pomposi editoriali che periodicamente popolano i giornali occidentali. La vittoria, la difesa della propria libertà, l’amore per la patria: sono le grandi parole che i combattenti stessi amano ripetere davanti ai microfoni e alle telecamere, le stesse in tutto il mondo e in tutte le guerre. Anche quando la realtà smentisce palesemente gli assunti.

Il capo plotone peshmerga

Ricordo un capo plotone peshmerga nel villaggio di Baqofa, due chilometri dalla linea del fronte con lo Stato islamico, che controllava l’adiacente cittadina di Batnaya e da lì tutti i 25 chilometri della strada fino a Mosul, allora capitale irachena del califfato. «Se Masud Barzani (il leader carismatico di metà dei curdi iracheni, ndr) ce lo ordina, noi andiamo fino a Mosul: non abbiamo paura di nessuno. Abbiamo avuto tanti martiri alla diga. Ma la cosa più importante è liberare tutti questi territori ed essere liberi», rispondeva alle mie domande. Era il capo di una quindicina di uomini, nessuno sotto i 40 anni, armati soltanto di kalashnikov e mimetica.

Con un binocolo si distingueva benissimo la bandiera nera del Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis) in cima all’acquedotto di Batnaya, un paio di chilometri in linea d’aria dalla nostra postazione. Non c’era nessuna possibilità che quel manipolo di uomini potesse fare qualcosa di più di quello che stava facendo, cioè difendere le poche case di quel villaggetto cristiano in prima linea sul quale un giorno sì e uno no i miliziani dell’Isis riversavano colpi di mortaio. Sarebbero passati altri due anni prima che prendesse il via l’offensiva per la liberazione di tutta la piana di Ninive e di Mosul, un’operazione che sarebbe durata nove mesi e per la quale sarebbero stati necessari più di 100 mila uomini e centinaia di sortite aeree di una coalizione internazionale a guida americana.

L’io e il noi

Le spiegazioni di politici ed editorialisti non sono più attendibili delle spacconate dei combattenti. Le une e le altre rispondono ad esigenze psicologiche e propagandistiche. Quelle che si leggono sui nostri giornali suonano molto autoreferenziali, molto condizionate dal clima culturale occidentale post-moderno, senza nemmeno il sospetto che non tutta l’umanità si trovi collocata lungo la traiettoria che va da Immanuel Kant a Zygmunt Baumann. Quando si legge della resistenza ucraina all’invasione come “rivolta dell’io”, irriducibile all’ingiustizia di chi lo vorrebbe schiacciare, si avverte tutto il peso ideologico della filosofia individualista borghese che permea gli intellettuali europei e allo stesso tempo viene da sorridere: la chiave di lettura della ribellione esistenziale è ormai anacronistica nell’Occidente post-moderno, caratterizzato dall’avvento del “dividuo”, l’essere umano frammentato, diviso in se stesso, evocato da Günther Anders già nel 1956; ed è scentrata rispetto alla realtà dei fatti d’Ucraina, che configurano un agire non individuale ma collettivo, motivato dall’appassionata appartenenza a una comunità nazionale, dal desiderio di eroicizzare l’identità del popolo in cui ci si riconosce.

In Ucraina il collante fra il singolo e il collettivo, fra l’”io” e il “noi”, è ancora il senso dell’onore, architrave di tutti i valori in tutte le società tradizionali (non ancora capitaliste, non ancora pienamente moderne): si va al fronte disposti al massimo sacrificio prima di tutto per non perdere la faccia davanti alla comunità, perché il proprio nome possa essere pronunciato con reverenza da coloro che continueranno a vivere. Non è l’anelito alla libertà borghese di ricercare la propria personale felicità che spinge i combattenti ucraini al fronte: sono gli imperativi etici dell’appartenenza alla comunità, la preoccupazione per quello che si è agli occhi degli altri, per il giudizio della comunità su di me.

Le parole dell’Iliade

Ma, si diceva all’inizio, come regge tutto questo di fronte alla prospettiva della sconfitta certa o, in alternativa, dell’apocalisse nucleare senza vincitori né vinti? Forse ci aiuta a trovare una risposta uno dei brani più belli dell’Iliade, quello del commiato di Ettore da Andromaca nel canto VI.

Il figlio di Priamo sta per partire per la battaglia dalla quale non tornerà vivo, presagisce il proprio sacrificio e lo abbraccia con una giustificazione sconvolgente: «Giorno verrà, presago il cor mel dice,/ 
Verrà giorno che il sacro iliaco muro/ E Priamo e tutta la sua gente cada./ Ma né de’ Teucri il rio dolor, né quello/ D’Ecuba stessa, né del padre antico,/ Né de’ fratei, che molti e valorosi/ Sotto il ferro nemico nella polve/ Cadran distesi, non mi accora, o donna,/ 
Sì di questi il dolor, quanto il crudele/ Tuo destino, se fia che qualche Acheo,/ Del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo,/ Lagrimosa ti tragga in servitude./ Misera! in Argo all’insolente cenno/ D’una straniera tesserai le tele:/ Dal fonte di Messíde o d’Iperéa,/ (Ben repugnante, ma dal fato astretta)/ Alla superba recherai le linfe; . (…) Ma pria morto la terra mi ricopra,/
 Ch’io di te schiava i lai pietosi intenda».

Disperato eroismo

Ettore preferisce essere morto in battaglia prima di sapere che la sua sposa è ridotta in schiavitù. Non teme la propria morte, né quella dei propri cari, ma non può sostenere il pensiero della loro umiliazione vita natural durante: un destino peggiore della morte.

C’è qualcosa di Ettore in questi giovani soldati ucraini che si recano al fronte senza speranze: con rare eccezioni, i loro cari non diverranno schiavi del nemico, ma ugualmente sono destinati a una vita di umiliazioni e di alienazioni nei paesi dove troveranno riparo come profughi. Badanti per sempre, manovali per sempre, e i loro figli e le loro figlie non più ucraini ma della nazionalità del paese di accoglienza. Per sfuggire alla schiavitù russa, sono destinati a scivolare in una più sottile schiavitù, quella dell’identità svuotata dall’interno, massificata e omologata secondo i canoni della società edonista-consumista.

Il cuore si stringe al pensiero di tanto disperato eroismo, di tanto fatale sradicamento.

Foto Ansa

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1 commento

  1. CARLO CANDIANI

    Che cosa spinge i soldati russi a dare la vita in guerra?
    Lo sapremo alla prossima puntata?
    In amicizia e massimo rispetto

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