
Cercasi personale, meglio se digitale

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – E se i tuoi risparmi fossero gestiti da un robot che si chiama Ernest? Non è un film di fantascienza, ma quello che sta per accadere in Italia grazie a un’operazione fortemente innovativa annunciata da una società specializzata in investimenti privati con sede a Milano che attraverso una piattaforma internazionale offre prodotti e soluzioni di risparmio nel nostro paese e nel Regno Unito. Proprio i rapporti intrattenuti con Londra hanno consentito a Giovanni Daprà, cofondatore e ceo di Moneyfarm, di entrare in contatto con i tre ricercatori italiani (Cristoforo Mione, Lorenzo Sicilia e Niall Bellabarba) che nel 2016 hanno sviluppato un prototipo di financial wellness coach, cioè di consulente finanziario personale, il cui nome è, appunto, Ernest.
Si tratta di una delle più sofisticate applicazioni di intelligenza artificiale (Ai) che saranno sperimentate nell’industria dei servizi. Ernest è, dunque, un vero personal banker, che, sfruttando i dati ricavati dalle transazioni bancarie degli utenti e interagendo attraverso Facebook Messenger, è in grado di fornire ai suoi assistiti consigli su misura che dovrebbero migliorare e rendere più efficiente la gestione delle finanze adattando gli investimenti alle abitudini di vita di ciascuno. Sembra una scommessa ambiziosa, quella di Moneyfarm, ma se avrà successo farà fare un enorme passo in avanti al settore del risparmio in una fase in cui l’Italia sta facendo uno sforzo per darsi una strategia nazionale di educazione finanziaria.
I robot stanno, dunque, conquistando e cambiando il mondo. Non con un esercito di cyborg come suggerito all’immaginario comune da una vasta letteratura e dalla cinematografia sul tema, bensì mediante una sottile e discreta infiltrazione della tecnologia digitale nella nostra quotidianità. Gli ultimi dispositivi prodotti da colossi come Amazon, Microsoft e Google ci consentono di accendere le luci, controllare le previsioni meteo, consultare l’agenda, ascoltare musica, azionare il bollitore e prenotare un taxi, tutto tramite un comando vocale. Presto l’intelligenza artificiale – vale a dire la replica, da parte dei computer, di azioni che normalmente richiedono intelligenza umana – farà molto altro, grazie agli investimenti delle società digitali che considerano i sistemi di apprendimento automatico una delle principali fonti di crescita. Un nuovo megatrend mondiale capace di condizionare lo sviluppo economico del futuro, al pari di fenomeni come i cambiamenti climatici, l’allungamento della vita, la scarsità di risorse e i mercati emergenti. Se ne sono accorti i colossi specializzati negli investimenti finanziari, che stanno dedicando allo studio di questa materia un crescente numero di studi.
Da 2 a 127 miliardi di dollari
Una ricerca appena pubblicata da Pictet, gruppo bancario con sede a Ginevra e oltre 200 anni di storia, spiega che il mercato dell’Ai è già piuttosto vasto ma dovrebbe crescere ancora: dai 2 miliardi di dollari del 2015 a 127 nel 2025. Finora il mercato è stato trainato da America e Cina. Secondo Pictet, però, sarà coinvolta l’economia globale con trilioni di dollari di extra crescita, spinta dall’aumento della produttività e dei consumi che si genereranno, perché le persone saranno disposte a spendere per beni e servizi nuovi e migliori.
L’intelligenza artificiale rivoluzionerà settori come la sanità, le vendite al dettaglio e la finanza, e sarà la fortuna di alcune società e la rovina di altre. Secondo gli analisti, la trasformazione più rapida è prevista nel campo dei software digitali. Qui le aziende potranno incrementare i ricavi sia tramite gli abbonamenti sia grazie ai nuovi prodotti. Realtà quali Facebook, Baidu, Salesforce.com o Medidata hanno accesso a un massiccio volume di dati relativi a consumatori e imprese nei rispettivi ambiti e sono in grado di offrire servizi a valore aggiunto ai clienti grazie proprio all’intelligenza artificiale. E il campo delle applicazioni nel ciclo aziendale è vasto. Netflix, per esempio, prevede di evitare oltre 1 miliardo di dollari di perdite annue dovute all’annullamento degli abbonamenti offrendo all’utente risultati di ricerca e consigli su misura. Amazon ha ridotto di almeno un quinto i costi operativi di magazzino grazie all’impiego di robot autonomi. Insomma, «solo abbracciando la rivoluzione robotica potremo mantenere una posizione di vantaggio», è la “morale” di Pictet.
Bill Gates vs Mark Zuckerberg
Intanto, però, anche se le aspettative sono altissime, la stragrande maggioranza delle aziende è ancora agli albori nell’applicazione di questi sistemi a processi e servizi. Da un altro studio di Boston Consulting Group emerge che si sta allargando la distanza tra chi investe sull’intelligenza artificiale e chi no: tra le organizzazioni intervistate c’è un 19 per cento di pionieri, cioè società che hanno adottato qualche forma di Ai o che hanno capito quali sono i passi necessari per implementarla, mentre all’estremo opposto ci sono i “passivi” (36 per cento) che non hanno né soluzioni ne comprensione del fenomeno.
Ma alla fine automazione e intelligenza artificiale saranno un problema o una risorsa per il mondo? L’evoluzione procede rapidamente e i pareri dei grandi della tecnologia sono molto diversi. Anche le ricerche scientifiche si dividono. Tra chi è convinto che i robot cancelleranno milioni di posti di lavoro e chi, invece, sostiene ne creeranno. Tra i più pessimisti, ci sono i ricercatori della Oxford University, per i quali il 47 per cento dei posti di lavoro negli Stati Uniti è ad alto rischio. Fosche sono anche le stime del World Economic Forum, che ha previsto che in 13 paesi industrializzati (fra i quali l’Italia) potrebbero essere persi più di 5 milioni di posti fra il 2015 e il 2020.
Alla schiera dei pessimisti appartengono grandi imprenditori come Elon Musk e Bill Gates. Il padre di Tesla sostiene che, in assenza di una regolamentazione efficace, «sarà l’intelligenza artificiale a causare la terza guerra mondiale». Il fondatore di Microsoft ha, invece, proposto una tassa sui robot per riequilibrare il rapporto costi/benefici nella sostituzione degli uomini con le macchine. Dall’altra parte della barricata c’è invece Mark Zuckerberg, convinto che l’Ai porterà più progressi che problemi. Teoria avallata anche da report autorevoli che ipotizzano la creazione di 800 mila posti di lavoro in un solo settore: il Crm, cioè la gestione del rapporto tra aziende e clienti. Non solo. Jeff Borland e Michael Coelli, economisti dell’Università di Melbourne, smontano i timori definendoli, in sostanza, irrazionali e legati a un periodo di incertezza. La fine del lavoro per mano delle macchine, affermano, «è già stata pronosticata diverse volte nella storia». Però non si è mai verificata.
Ancora più ottimista è uno studio di Capgemini. La ricerca ha una particolarità: non cerca di prevedere il futuro ma fotografa il presente e il recente passato. Risultato: tra le imprese che hanno adottato soluzioni di intelligenza artificiale, 4 su 5 hanno creato nuovi posti di lavoro. James Bessen, economista alla Boston University School of Law, ha tradotto questi numeri in casi concreti. Uber, ad esempio, non ha sostituito la domanda di taxi ma ha ampliato quella di mobilità. E Amazon, che sta spingendo sull’automazione dei processi, avrà bisogno di personale impegnato nella loro supervisione. Chi avrà ragione?
Foto Ansa
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