C’era una volta Mani Pulite

Di Rodolfo Casadei
24 Novembre 1999
A proposito della favola dei miliardi di denaro pubblico risparmiati grazie alla lotta alla corruzione. Quando i dati di Banca d’Italia e Eurostat dimostrano che Mani Pulite ha prodotto contrazione degli investimenti pubblici, recessione economica, nuove povertà

C’è ancora in giro un sacco di gente convinta che Mani Pulite sia stata una grande opera benemerita che ha fatto piazza pulita di corrotti e corruttori, che ha permesso alla collettività di risparmiare migliaia di miliardi prima sprecati in “tangenti” pagate ai partiti politici dalle imprese interessate ad appalti pubblici, che ha rivoluzionato il costume politico italiano e innovato profondamente la classe dirigente. C’è gente che, come Giuseppe D’Avanzo, afferma e scrive con sicumera che “negli appalti pubblici banditi dopo Mani Pulite il conto per lo Stato è diminuito in media del 40-50 per cento. Un chilometro di metropolitana oggi costa 150-250 miliardi contro i 300-350 di ieri. Un chilometro di passante ferroviario appena 40 miliardi e non più 83. I 5.000 miliardi per il completamento di Malpensa sono diventati 1990”. A D’Avanzo, editorialista del Corriere delle Sera irriducibile fiancheggiatore dei magistrati del pool di Milano, e a tutti quelli che, in buona o in cattiva fede, si muovono in quel solco di pensiero va fatto notare che non basta dare i numeri, citando acriticamente cifre lette su un rapporto dell’associazione Transparency International, perché questi siano corretti e riflettano una realtà incontrovertibile. Il metodo giusto, ce l’hanno insegnato, è quello di guardare la realtà nella totalità dei suoi fattori. O almeno di guardare cosa ci sta dietro certi numeri in discesa.

Le cifre con cui vengono assegnati gli appalti pubblici, infatti, non sono l’unica cosa che scende -quanto a conti dello Stato- nel Belpaese. Prendiamo un dato istruttivo come quello degli investimenti pubblici. Scopriremo che oggi, 1999, il totale degli investimenti annui dello Stato è appena più alto di quello che era nel 1990 (73.391 miliardi allora contro 77.685 alla fine del 1998, cioè +6%), mentre nello stesso periodo le spese correnti sono aumentate del 47% passando da 631mila a 928mila miliardi. Il che vuol dire che dopo l’esplosione di Tangentopoli c’è stata una brusca frenata della spesa pubblica per opere infrastrutturali, che non si è ancora ripresa.

Non sono cifre buttate a capocchia o elaborate da un’associazione privata: sono dati stampati sul Bollettino della Banca d’Italia, il massimo dell’ufficialità. E parlano chiaro, per chi vuole capire: Mani Pulite ha prodotto una paralisi della spesa pubblica che è quantificabile in opere pubbliche non realizzate per un importo di oltre 160mila miliardi: tanti sarebbero stati se l’increlmento delle spese in conto capitale avesse tenuto dietro all’incremento della spesa corrente. I procedimenti giudiziari e il timore degli amministratori pubblici, sia centrali che locali, di incorrere nei fulmini indiscriminati della magistratura hanno prodotto una situazione in cui si costruisce poco e con gravi ritardi.

Ma, potrebbero replicare D’Avanzo & C., la flessione degli investimenti pubblici è solo apparente, trattandosi semplicemente di denaro sottratto alla voracità dei politici, ovvero non dipende da Mani Pulite, ma piuttosto dalla politica di risanamento di bilancio e di sacrifici necessaria per poter aderire all’Unione Monetaria Europea e restarvi dentro. Ebbene no, le cose non stanno così, l’incidenza di Mani Pulite sull’impoverimento della dotazione infrastrutturale italiana non può essere così facilmente esorcizzata. Per rendersene conto basta analizzare l’andamento del prodotto interno lordo (pil) italiano prima e dopo Mani Pulite e raffrontarlo con quello degli altri paesi europei. Si scoprirà che per tutti gli anni Ottanta, fino al 1990, l’andamento del pil italiano è in linea con la media dell’Unione Europea (UE), mentre dopo quella data i suoi miglioramenti annui sono sensibilmente inferiori alla media suddetta tranne che nel 1995, l’anno della rottamazione (che produce un + 3% in Italia, mentre l’UE sta a +2,5%). Ma in tutte le altre annate i risultati dell’Italia sono peggiori di quelli dell’UE: il 1993, anno di crescita negativa, vede un -0,5% per il pil dell’UE, ma un -1,2% per quello dell’Italia; nel 1996 la media UE di crescita del pil è +1,6%, quella italiana è appena +0,7%, e anche lo scorso anno il nostro dato risulta più che dimezzato rispetto a quello europeo: +1,4% contro +2,9% nell’Europa dei 15.

I soliti intelligentoni faranno notare che l’Italia deve risanare un debito pubblico che gli altri paesi europei non hanno. Di qui i risultati economici meno buoni. Errore, errore. C’è un altro paese in Europa che, come l’Italia, vanta (per modo di dire) un rapporto deficit/pil attorno al 120%: si chiama Belgio e non ci batte soltanto nelle amichevoli di calcio, ma anche per quanto riguarda la crescita del pil. Nei nove anni fra il ’91 e il ’98 il pil belga è cresciuto più del nostro (o è calato meno) sei volte su nove. Negli ultimi tre anni ha sempre avuto incrementi doppi dei nostri: +1,4 contro +0,7 nel ’96, +2,3 contro +1,2 nel ’97 e +2,9 contro +1,4 nel ’98.

Insomma, gli aficionados di Mani Pulite devono arrendersi all’evidenza: la grande rivoluzione giudiziaria ha prodotto, certamente come effetto non desiderato, una depressione dell’economia italiana, un ritardo nelle infrastrutture e, non ultimo, un impoverimento delle grandi imprese italiane. Così infatti un operatore del settore spiega il “mistero” dei ribassi d’asta del 40%: “Il recupero di importi destinati a “commissioni” e bustarelle non c’entra nulla -dice il nostro interlocutore-. Qui stiamo parlando di gare che partono con una certa base d’asta, e che si concludono con l’assegnazione della commessa dopo ribassi anche del 40% sul valore iniziale, una cosa che ha pochi eguali nel mondo. La ragione del fenomeno è un’altra: l’asfissia degli investimenti pubblici dopo Mani Pulite spinge le imprese a fare prezzi stracciati pur di vincere un appalto. Le imprese sono sull’orlo della bancarotta, e finiscono per accettare di lavorare in perdita pur di restare nel giro e dare ai creditori l’impressione di essere in grado di ripagare i debiti. La conseguenza più vistosa di questa situazione malsana consiste nella lentezza dei lavori: avendo accettato ribassi troppo accentuati, le imprese non riescono poi a lavorare stando dentro ai prezzi. Allora si fermano per non sforare e sperando che vengano stanziati altri fondi”. Il caso più clamoroso di questa dinamica è la malfamata autostrada Salerno-Reggio Calabria: l’appalto è stato assegnato quasi otto anni fa, ma i lavori di miglioramento per dare standard più dignitosi a quella malandata tratta autostradale procedono al rallentatore proprio a causa dell’importo troppo basso con cui le imprese costruttrici hanno vinto l’appalto. Qualcuno darà la colpa all’inefficienza meridionale, ma anche un certo moralismo settentrionale, che non vuole mai assumersi le sue responsabilità, qualche colpa ce l’ha.

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