C’era una volta il Welfare

Di Rodolfo Casadei
08 Maggio 2003
Nella vecchia Europa la protezione sociale fa crack. Unica salvezza possibile: passare dal welfare State alla welfare society. Ma i Cofferati si oppongono

Il sistema di protezione sociale dei paesi della Ue, vanto dell’Europa in faccia all’America e al resto del mondo, è sul punto di crollare.
La causa immediata è la lievitazione dei costi, ma la causa di fondo
è la perdita del senso della vita, del lavoro e del futuro, che sta trasformando gli europei in una popolazione di vecchi bisognosi di assistenza, mentre i pochi giovani mancano della voglia di imparare e di lavorare.
è questo l’allarmante ritratto dell’Europa che emerge dal Rapporto 2003 del Cefass Il welfare in Europa, opera di Maite Barea e Giancarlo Cesana.

I conti in tasca al welfare
Il Cefass è il Centro europeo di formazione per gli affari sociali e la sanità pubblica con sede a Milano, antenna dello Ieap, l’Istituto europeo di amministrazione pubblica creato a Maastricht nel 1981 e finanziato dalla Commissione europea per rendere i suoi servizi agli stati membri. Giancarlo Cesana, ordinario di medicina del lavoro all’Università statale di Milano, è stato fino al 31 dicembre scorso il suo direttore. Maite Barea, economista, è ordinario di economia applicata all’Università autonoma di Madrid e ricercatrice del Cefass. Le 90 pagine del rapporto sono asciutte, ma impietose nell’analisi: «Ormai sul sistema di protezione sociale europeo pesano rischi rilevanti che non lasciano prevedere soluzioni facili: la caduta demografica (…); l’invecchiamento della popolazione che sta portando al collasso i sistemi pensionistici e aggravando sensibilmente, insieme all’evoluzione tecnologica, i costi della sanità; l’affermazione nel corso degli ultimi due secoli di una mentalità per la quale i cittadini si aspettano sempre di più dallo stato anche per questioni “personali” inerenti il lavoro, la famiglia ed il tempo libero». L’unica via di uscita possibile indicata è «…un sistema di welfare mix, con un finanziamento pubblico ed una produzione pubblica/privata in concorrenza per la fornitura dei servizi di protezione sociale». Si potrebbe allora sperare di conseguire un triplice obiettivo: «a) la sostenibilità del sistema di protezione sociale ed il contenimento della spesa pubblica; b) la più grande qualità delle prestazioni ed una maggiore libertà di scelta dei beneficiari; c) la maturazione della libertà e della responsabilità dei cittadini europei, che potranno decidere essi stessi le modalità di risposta ai bisogni più caratteristici della natura umana».
Che il welfare state europeo stia per diventare “insostenibile” lo annunciano da anni gli stessi organi centrali della Ue e l’Ocse, l’organismo che riunisce i paesi più industrializzati del mondo. Il rapporto del Cefass snocciola numeri e fatti che avvalorano il grido di allarme. Se per protezione sociale si intendono le spese pubbliche per assistenza sanitaria, pensioni, disoccupazione, istruzione, famiglie ed infanzia, abitazione, esclusione sociale, si deve constatare che tali spese rappresentano in media il 30% del Prodotto interno lordo (Pil) dei paesi della Ue ed i due terzi della spesa totale delle Amministrazioni pubbliche. In alcuni paesi (Austria, Francia, Olanda e paesi scandinavi) si avvicinano al 40% del Pil; in Germania sono raddoppiate nel giro di dieci anni dopo l’assorbimento dell’ex Germania Est e rappresentano ormai il 70% delle spese della Pubblica amministrazione. Ma la tendenza all’aumento è generalizzata a causa di tre fattori legati fra loro: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento del numero dei pensionati di tutti i tipi (non solo di vecchiaia), l’aumento dei consumi sanitari. Dei tre fattori, quello preminente è, come si può intuire, l’invecchiamento. Tutti gli studi sull’argomento mettono in rilievo, fra le altre cose, che le persone anziane consumano più servizi di sanità che il resto della popolazione: ogni persona con più di 60 anni di età consuma come quattro o cinque persone più giovani. Ciò costringe i paesi Ue ad aumentare gli stanziamenti per la sanità benché la popolazione resti stazionaria o cali di numero, perché in realtà è come se aumentasse di anno in anno, grazie alla vita sempre più lunga dei cittadini europei; d’altra parte l’aumento di stanziamenti non riesce a tenere il passo dell’aumento di domanda, e di conseguenza le risorse assegnate per ogni cittadino vanno in realtà diminuendo, quindi ognuno di noi deve pagare un ticket per ottenere quello che ieri riceveva gratuitamente o quasi.

Dio, quanto siamo vecchi!
L’invecchiamento dipende dal fatto che i tassi di fertilità attuali non garantiscono il rimpiazzo generazionale, che ha bisogno di 2,1 figli per donna in età feconda. Invece nel 2000 la fertilità oscillava tra gli 1,2 bambini per donna di Italia e Spagna e gli 1,8-1,9 di Danimarca e Irlanda. A ciò si accompagna l’aumento della speranza di vita alla nascita, che negli ultimi trent’anni è cresciuta di 5,5 anni per le donne (81,5 anni di speranza di vita) e 5 per gli uomini (74,7 anni). Ciò significa che nel giro di cinquant’anni gli ultraottantenni in Europa quasi triplicheranno, passando dagli attuali 14 milioni a 38. In Italia e Spagna nel 2050 il 40% della popolazione avrà più di 60 anni (oggi è il 22-24%), e sarà un record mondiale. Il Comitato di politica economica della Commissione europea nel 2001 ha stimato che il semplice effetto dell’invecchiamento porterà ad un aumento della spesa pubblica per la sanità compreso fra lo 0,7 ed il 2,3% annuo a seconda dei paesi fra il 2000 ed il 2050. Che significa un 25-30% di spesa sanitaria in più nel 2050 rispetto ad oggi. Ma in realtà le persone fra gli 0 ed i 64 anni avranno meno assistenza, mentre la spesa per gli ultraottantenni esploderà. In Italia, Germania ed Austria triplicherà dai livelli attuali.
Il secondo problema dell’invecchiamento della popolazione europea è il suo influsso sui regimi pensionistici, che in tutta Europa sono prevalentemente del tipo “per ripartizione”, cioè i contributi dei lavoratori attivi pagano le pensioni dei lavoratori non più attivi. Il “tasso di dipendenza” va deteriorandosi: nel 2000 in Italia, Spagna, Germania e Francia c’erano 3 persone circa sopra i 65 anni per ogni 10 in età lavorativa; nel 2050 in Francia e Germania ce ne saranno più di 5, in Italia e Spagna quasi 7. L’incidenza della spesa per le pensioni sul Pil e sul totale della spesa pubblica è dunque destinata ad aumentare, il rischio che i contribuenti di oggi non beneficino, una volta raggiunta l’età del pensionamento, di trattamenti analoghi a quelli attuali sempre più forte e la diminuzione dell’impegno pubblico negli altri ambiti della protezione sociale praticamente certa. La spesa pensionistica oggi equivale in media al 10% del Pil Ue (5% in Irlanda e Regno Unito, 14% in Austria ed Italia); nel 2050 equivarrà al 14% (supererà il 15% in Germania, Spagna, Francia, Grecia, Austria e Finlandia se non saranno presi provvedimenti). «Gli effetti dell’invecchiamento della popolazione – si legge nel rapporto – si faranno sentire sulle altre prestazioni sociali, come educazione e famiglia, nel senso di una riduzione di queste… mediamente dell’1% del Pil. L’aumento delle spese dovuto esclusivamente all’invecchiamento della popolazione si situerà pertanto tra il 4 e l’8% del Pil, arrivando a rappresentare fino a 15-16 punti di crescita percentuale sulle spese della Pubblica Amministrazione. Il che sarà certamente insostenibile». Le riforme pensionistiche dell’ultimo decennio hanno scongiurato il peggio, e tuttavia l’Italia dedica ben il 43% della spesa pubblica per la protezione sociale alla funzione vecchiaia, cioè alle pensioni: la famiglia e la disoccupazione ricevono il 2% rispettivamente, l’abitazione e l’esclusione sociale praticamente nulla.

La piaga dei finti disoccupati
A tutto ciò si aggiunge il gravame per i conti pubblici rappresentato dall’abuso dei sussidi di disoccupazione. «Spesso – si legge nel rapporto – la durata delle prestazioni di questi regimi supera notevolmente quella del periodo di contribuzione… così da costituire un incentivo a rimanere disoccupati… Nei paesi nordici, da lungo tempo, le persone che sono alla fine dei loro diritti di indennizzo alla disoccupazione, partecipando a programmi attivi di reinserimento al lavoro riaprono un nuovo periodo di godimento di tali diritti». In Danimarca bastano 6 mesi – un anno di contributi per ricevere sussidi per 4 anni, in Svezia bastano 6 mesi per 300 giorni di sussidi. In Belgio 78 settimane di contributi danno diritto a prestazioni di durata illimitata. In Svezia, secondo uno studio Ocse del 1999, il reddito medio di un lavoratore disoccupato poteva essere stimato nell’85% circa del reddito di un lavoro a tempo pieno. In Olanda fino a pochi anni fa un anno di presa in carico da parte dell’assicurazione malattia e una percentuale di invalidità del 15% davano diritto ad una pensione di invalidità completa fino ai 65 anni di età, cui seguiva la pensione di vecchiaia. Risultato: a metà degli anni Novanta in Olanda una persona su sette non lavorava più per ragioni di invalidità.
Cosa fare per salvare la baracca? La strada è la separazione della funzione di regolazione da quella di produzione dei beni di protezione sociale: la Pubblica Amministrazione dovrebbe mantenere il monopolio sul primo aspetto, cioè sulla definizione dei livelli di assistenza e sulle regole del servizio, mentre la produzione dei servizi dovrebbe essere affidata ad enti pubblici autonomi e a soggetti privati. «L’amministrazione pubblica dovrebbe limitare le sue funzioni alla verifica che gli agenti produttori soddisfino le condizioni di integrazione sociale, di qualità e di eguaglianza nell’accesso… le riforme degli ultimi anni (nei paesi della Ue – ndr) tendono a introdurre un sistema di mercato concorrenziale all’interno degli stessi agenti pubblici e/o cercano di creare dei mercati misti concorrenziali pubblici/privati o altri sistemi di partenariato, conservando comunque il finanziamento pubblico».
L’Europa dei Cofferati, degli “Aprile”, e della sinistra non riformista e non riformata permetterà l’evoluzione in questa direzione? Tutto fa propendere per il no, vista la profluvie di referendum contro la modifica dell’articolo 18, i “buoni scuola” regionali, ecc., cioè contro ogni ipotesi seria di riforma sostenibile del welfare, che connota tale sinistra. E non c’è da stupirsi: il vecchio welfare statale ha fatto tanto bene, ma aveva ed ha un difetto che per i Cofferati vari è invece un grande pregio: in esso il cittadino si rimette completamente allo Stato (ed alle sue propaggini, come il sindacato), che diventa l’ente controllore della società, sia degli individui che la compongono che delle istituzioni in cui essi si associano. A questo monopolio non vogliono rinunciare, a costo di affondare insieme all’intero continente.

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