C’è anche chi non vede solo il dito di Palamara ma la Luna del Csm

Di Emanuele Boffi
14 Ottobre 2020
Un libro raccoglie preziosi interventi di magistrati e giuristi che hanno il coraggio di guardare la crisi della giustizia senza nascondersi dietro il classico scandalo di distrazione di massa
Luca Palamara

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

«Va infranto l’incantesimo malefico». Scrive proprio così, «incantesimo malefico», Alfredo Mantovano, magistrato, nostro prezioso collaboratore e curatore di In vece del popolo italiano, volume che raccoglie gli atti del convegno organizzato dal Centro studi Livatino il 29 novembre 2019 a Roma.

Erano i giorni in cui sui giornali già si dibatteva del caso Palamara e degli scandali scoppiati intorno al Csm. Già allora – e la storia prosegue oggi – tutti tendevano, chissà quanto innocentemente, ad indicare il famoso dito di Palamara anziché la famosa Luna del Csm. Al furbo espediente si sottraggono gli autori dei saggi che compongono questo volume perché sanno troppo bene come funzionano le cose in Italia: gli scandali non servono a rivelare ciò che non va, ma a colpirne uno per salvarne cento.

Come scrive lo stesso Mantovano: «Il caso esploso è stato archiviato rapidamente fra i media e nell’attenzione generale, senza un’analisi delle cause e senza una conseguente riflessione pubblica sui rimedi per evitare il ripetersi di vicende simili. La stessa rubrica conferita a quanto accaduto ha orientato verso l’attenuazione dell’interesse: si è parlato di “caso Palamara”, come se fosse coinvolto un solo magistrato, o i pochi a lui legati. È come se, mutatis mutandis, nel 1992 invece che di Tangentopoli si fosse parlato del “caso Mario Chiesa”».

Copertina del libro di Alfredo Mantovano In vece del popolo italiano, atti del convegno del Centro studi Livatino sulla crisi della giustizia

Va dato atto ai magistrati del Centro studi Livatino di avere un coraggio leonino. Innanzitutto per la scelta del tema che, come riassume Fillipo Vari nell’introduzione, riguarda «il ruolo creativo da parte della giurisprudenza» che «distrugge uno dei postulati delle liberal-democrazie contemporanee: la distinzione tra il disporre e il provvedere». Appunto, la giustizia amministrata non «in nome del popolo italiano», ma «in vece del popolo italiano». E poi per la capacità di analisi storica e culturale delle vicende della nostra magistratura negli ultimi cinquant’anni: un faro che aiuta a illuminare i problemi presenti (preziosi gli interventi di Giulio Prosperetti, Carlo Guarnieri, Mauro Ronco).

Ecco, dunque, anche grazie ad un’indagine presentata dal presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo sui “numeri della giustizia”, si arriva ai due ultimi interventi di Domenico Airoma e Mantovano, in cui si entra nel merito di questioni d’estrema attualità: il Csm, l’Anm, le correnti, la separazione delle carriere, i concorsi, gli uffici giudiziari.

Al termine, due appelli: quello alla politica affinché la smetta di «assistere dalla tribuna a una partita della quale è soggetto essenziale. Poiché pure il non fare è una scelta». E quello contenuto nel discorso di papa Francesco in cui si sprona a seguire l’esempio di Rosario Livatino, il giudice che seppe sempre tenere presente la «dignità trascendente dell’uomo».

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.