Stupiti dal caso Coppola? Finché i pm avranno potere assoluto non ci sarà giustizia per le loro prede

Di Luigi Amicone
27 Maggio 2013
Perché il pubblico ministero non è sottoposto ad alcun controllo? La separazione delle carriere tra pm e giudici è indispensabile

In questo numero un magistrato milanese conferma le buone ragioni di quanti in questi anni si sono battuti per l’amnistia e propone una riforma del nostro sistema penitenziario. Ne discutiamo in queste pagine. Ma cosa c’è a monte? C’è una giustizia che non funziona. Due anni in prigione, 104 giorni di isolamento, distruzione della persona e del suo patrimonio. Dopo di che, assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste». Danilo Coppola non è l’ultimo caso, né un caso isolato. Di gente che finisce in “carcere preventivo” col marchio dell’infamia e viene poi riabilitata per sentenza ce n’è tanta, troppa, in Italia. Ne consegue che il problema sono i giudici? No, ne consegue che il problema è lo strapotere dei pm. I quali, come si vede nei tanti casi Coppola e nella giustizia che prende di mira le aziende (vedi caso Ilva), possono annichilire la vita delle persone e fare terra bruciata intorno a interi comparti produttivi. Non stiamo parlando del conflitto tra giustizia e politica. Stiamo parlando della collocazione istituzionale del Pubblico Ministero.

Perché in Italia un pm non è sottoposto ad alcun controllo, neppure gerarchico, e può seguire priorità di indagine col fine di dettare a governo, parlamento e opinione pubblica un certo tipo di agenda politica? Perché vige un sistema di pratica discrezionalità e il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale può risolversi facilmente nell’indagine autoprodotta in procura e amministrata in collaborazione con una testata giornalistica? Perché questa anomalia di magistrati che si “scelgono” le inchieste e poi, grazie alla notorietà acquisita sulla scena mediatica, passano all’incasso politico diventando personalità del jet-set elettorale, come, tra gli altri, è avvenuto nei casi Di Pietro, De Magistris e Ingroia?

Queste cose succedono in Italia, e solo in Italia, perché con la riforma Vassalli del 1989 il Pubblico Ministero ha assunto un duplice e contraddittorio ruolo: il ruolo di “parte” in processo e, insieme, il ruolo di titolare dell’attività investigativa. Non più organo rigorosamente istruttorio, il pm svolge indagini al pari e col totale supporto della polizia giudiziaria. Ma l’attività investigativa, diversamente da quella istruttoria, è per sua stessa natura un’attività tipicamente politico-amministrativa. Tant’è che la polizia giudiziaria dipende organicamente dal governo nelle sue diverse articolazioni (Carabinieri-ministero della Difesa; Polizia-ministero degli Interni; Guardia di Finanza-ministero dell’Economia e delle Finanze, eccetera). Il Pubblico Ministero, invece, pur essendo organo investigativo, è considerato non solo del tutto autonomo e indipendente dal potere politico-istituzionale, ma anche organo prettamente giurisdizionale, magistratura al pari dei collegi giudicanti.

Ma così non è: la natura dell’attività dell’uno e degli altri è strutturalmente diversa e imporrebbe, come già aveva intuito un giudice come Giovanni Falcone, una diversificazione di tali organi anche da un punto di vista istituzionale, separandone le carriere e la disciplina formativa. Ecco perché la separazione delle carriere tra pm e giudici è l’indispensabile premessa di qualunque riforma della giustizia.

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