
Caruso, un virus per i polli dell’Unione
Se non c’è eroe per il suo cameriere (lo diceva Hegel), figurarsi per un guappo scaltro come Francesco Caruso, uno che sul rango minoritario degli esclusi ha costruito la versione nazionalpop di quel formidabile marchio prêt-à-porter detto “no-global”. Roba da fare invidia all’intendenza confindustriale, se è vero che una settimana fa Luca Cordero di Montezemolo ha superato ogni orgoglio di classe pur di offrire un caffè al trentaduenne beneventano candidato da Fausto Bertinotti.
Non c’è eroe per il suo cameriere, figurarsi per uno che ha studiato la rivoluzione a Bologna (Scienze politiche) e ha creduto possibile fare dell’Officina 99 di Napoli (Ciendro soscial’okkupato) la propria Weimar in miniatura. Spartachista pragmatico, decisamente il migliore della tribù antiglobalista, Caruso ha fatto marameo al grasso utopico di Luca Casarini e degli altri abbaianti figuri trincerati nelle ridotte extraparlamentari del Nord-est, e adesso è pronto a fare la faccia cattiva nell’avanspettacolo che precede la recita quinquennale del Palazzo romano. Ed è già una bellezza, perché le prime vittime di quella sua maschera da capoclasse di scuola privata sono i presunti eroi della sinistra cui il cameriere no-global, Caruso Antonio da Benevento, avrebbe dovuto distillare i propri voti come fossero la grappa forte dopo l’abboffata in osteria. Padrone della sua volontà avrebbe voluto essere Bertinotti che l’ha inquadrato come indipendente nelle liste di Rifondazione. Guastatore s’è subito rivelato lui promettendo scintille antiglobaliste alle Olimpiadi invernali torinesi. E siccome poca favilla gran fiamma seconda, ne è nata una formidabile baruffa nella quale il nostro giottino (da G8) ha potuto stilare il programma di governo del prodismo che verrà, se verrà, infornato in cucina no global.
IL PROGRAMMA? ECCOLO
Punto primo: in materia di politica estera, dice Caruso, è meglio essere un seguace italiano di Hamas che un Mastella qualsiasi della Palestina. Come minimo si aspetterà un sottosegretariato alla Farnesina, il ragazzaccio che fa arrossire di moderazione Bertinotti. Non fosse che evidentemente mira più in alto, a giudicare dal punto secondo: in materia di sicurezza, si esalta il giovanotto, conviene sciogliere il reparto operativo speciale dei carabinieri (Ros). Quando uno comincia già a immaginarselo accanto a Piero Fassino al ministero dell’Interno, ecco che Caruso sfodera l’intuizione che potrebbe valergli la vice poltrona di Pierluigi Bersani all’Economia o, come dice lui, la presidenza della commissione Affari sociali: siete in cerca di soldi? Bene, «prendiamoci la barca di Massimo D’Alema. Così aiutiamo qualche cassintegrato». Fosse soltanto la sgangheratezza del dadaista fuori tempo massimo («Sarò un virus che metterà in crisi i privilegi»), sarebbe perfino simpatico. Peccato che D’Alema sia il maggior azionista della baracca nella quale Caruso viene fatto entrare sperando che non faccia i bisognini sul tappeto. E invece si accorgono adesso, cerimonieri e camerlenghi di un centro-sinistra ultravariopinto, d’essersi apparentati con un signore della suburra.
In fondo sarebbe bastato guardarlo alla televisione mentre ragliava con gli amici dei centri sociali, oppure leggerne l’autobiografia. Quella che Caruso scrisse tre anni fa durante i 18 giorni trascorsi nel carcere di Viterbo per reati sommamente rivoluzionari. Il Silvio Pellico alle vongole veraci fece della galera viterbese il proprio Spielberg, e partorì la propria opera: Maledetta globalizzazione. Frammenti di vita e disobbedienza sociale. Gli avessero dato da scrivere il programma dell’Unione, ci avrebbe messo ventiquattr’ore. Però sta già rimediando agli errori altrui.
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