
Caro sultano, convertiti
«Ci accingiamo a scriverti alcune cose per la tua salvezza e gloria e anche per la comune pace e consolazione di molti popoli». Inizia così uno dei documenti più straordinari che la storia della Chiesa e dell’Occidente ricordi. Uno spicchio di passato incredibilmente attuale. Chi scrive è il papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini. Il destinatario è nientemeno che Maometto II, sultano dell’Impero Ottomano che ha conquistato Costantinopoli, mettendo fine al secolare Impero Romano d’Oriente. Il Papa, con una lunga lettera e senza giri di parole, gli chiede di rinunciare al Profeta e farsi cattolico.
Siamo nel cuore del 1400. L’ombra dell’islam si allunga sui Balcani e in pochi anni giungerà fino alle porte di Vienna. L’Occidente avrebbe probabilmente dovuto reagire prima. Ma la cristianità è divisa, politicamente e religiosamente: Francia e Inghilterra si combattono, il papato è prigioniero ad Avignone. I turchi raggiungono facilmente il Danubio. Proprio mentre gli Stati europei si combattono e l’idea dell’impero muore lentamente, i turchi appaiono uniti, organizzati, potenti. I giannizzeri ne sono il simbolo: un terribile modello di soldati, disciplinatissimi, sottratti da piccoli ai genitori ed educati al fanatismo religioso e militare. Maometto II è salito al trono e si mostra subito risoluto: nel 1453 raduna un esercito di centomila uomini e in appena due mesi ha ragione delle gloriose triplici fortificazioni di Costantinopoli. L’antico sogno islamico di conquistare Roma sembra concretizzarsi.
Ieri Roma oggi New York
Nella simbologia immaginifica orientale Roma è la “Mela rossa”, il frutto del potere assoluto che il musulmano potrà staccare finalmente dall’albero. Non c’è bisogno di aggiungere molto per sottolineare le assonanze con la cronaca d’oggi. La divisione dell’Europa, la forza dell’islam, il granitico fanatismo dei kamikaze, l’improvviso irrompere nell’orizzonte mondiale di una potenza cresciuta nell’ignavia dell’Occidente. Perfino la simbologia è simile: l’attacco al centro del nuovo potere, New York, è di nuovo attacco alla mela, alla “grande mela”. Ma le somiglianze sono ancora più sorprendenti se si passa a considerare l’altro protagonista della vicenda della lettera a Maometto II: la Chiesa di papa Piccolomini.
Pio II è una somma di contraddizioni. Umanista, nepotista, prima libertino, poi vescovo di Siena, al servizio dell’antipapa, poi del Papa legittimo e infine eletto lui stesso Pontefice. In quegli anni il problema della Chiesa è il conciliarismo: certi cardinali sostengono la superiorità del Concilio sul Papa ed esigono decisioni collegiali. Enea Silvio è con loro, ma presto riscopre il valore della “auctoritas” del papato. Non si cerchi però in lui la drammaticità di una conversione di stampo manzoniano: non c’è un san Pio II.
Ma il suo merito storico è ugualmente grande e sta, come vedremo, in una intuizione insieme politica e culturale. Mai dubita della superiorità della cattolicità e della civiltà occidentale sull’islam. Più volte chiama a raccolta i principi alla crociata. Ma la “civitas christiana” è ormai sepolta sotto i colpi di rasoio dei dottori del Trecento. È il Papa di Pienza, la città ideale interamente progettata a tavolino, monumento all’utopia rinascimentale dell’uomo che crede di rinnovare il mondo col suo ingegno e con l’aiuto della Fortuna, ma è anche colui che santifica Caterina da Siena. Eppure la chiave giusta per inquadrarlo, per comprendere il suo tempo e, forse anche un po’ del nostro non è nella sua complessità, ma proprio in quella lettera scritta a Maometto II nel 1461.
Si tratta di un piccolo trattato, nel quale Pio II critica aspramente la religione islamica con i mezzi della retorica e gli argomenti della razionalità. Maometto «contro la ragione schierò le armi, ordinando che nessuno discutesse la sua religione e che non se ne cercasse spiegazione razionale». Il Papa invita perciò il sultano a convertirsi e mette sul piatto una offerta sbalorditiva: se si farà battezzare gli promette in cambio il titolo di Imperatore di Grecia e d’Oriente. Il valore storico della proposta è grande. Maometto II potrà diventare come il nuovo Costantino (e naturalmente lui, Enea Silvio, come il nuovo papa Silvestro), potrà cioè essere protagonista di un passo storico, come fu quello che portò i romani dentro il cristianesimo o quello dei Franchi, che traghettarono i barbari nella integrale fede cattolica. L’Oriente tornerà così a Cristo e inizierà una nuova età di pace.
La lettera nel cassetto
Il progetto è audace. Ma se si va più a fondo le sorprese non sono finite. La lettera infatti resta nei cassetti del Pontefice ed è resa pubblica solo dopo la sua morte, nel 1475. Perché allora Pio II la scrive? Perché non la recapita? Perché non la distrugge? Giustamente, nei volumi di Hubert Jedin si considera questo testo un enigma. Del resto, poteva veramente un uomo di mondo, un diplomatico avvezzo alle corti credere realistica non tanto la conversione che domandava (per un uomo di fede lo potrebbe essere) ma soprattutto l’investitura imperiale che concedeva? Luca D’Ascia, autore dell’interessante ma discutibile libro Il Corano e la Tiara, fornisce una illuminante chiave di lettura. La lettera in realtà è destinata non al lontano Oriente, ma all’Occidente, ai litigiosi principi italiani. Il quattrocento umanista è caratterizzato da forti correnti filo-turche, intrinsecamente irreligiose e paganeggianti, che, specialmente in Italia, considerano la sponda islamica un cavallo di troia per le loro ambizioni politiche. Il Papa, sinceramente impegnato nella difesa della cristianità dall’avanzata turca fino all’epilogo della sua vita, capisce con lucidità che il nemico non è solo sulle rive del Danubio o nelle acque di Rodi, ma nei canali di Venezia, lungo l’Arno, persino sotto Castel Sant’Angelo.
I periodi storici non possono mai essere paragonati, né tantomeno i loro protagonisti. Il quattrocento non è il XXI secolo, né i papi del Novecento e d’oggi sono come i pontefici rinascimentali, un’epoca che ha ormai perso di vista San Francesco e San Domenico, e che ancora non vede Sant’Ignazio e Santa Teresa d’Avila. Ma colpisce il fatto che il tema della razionalità della fede sia tutt’ora centrale nel magistero pontificio e che questo, come dimostra il di-scorso di Ratisbona, sia rivolto innanzitutto all’Occidente. E sorprende che, di nuovo, dei figli dell’Europa, pur di attaccare la Chiesa e in nome del multiculturalismo, sembrino follemente disposti a rinunciare alla razionalità greca-cristiana e forse persino a far portare, per un po’, il velo alle proprie donne. La questione islamica, che attraversa da secoli la storia europea, travalica il campo dei puri rapporti tra religioni e, come suggerisce l’insegnamento di Ratzinger, è una cartina tornasole della stessa identità del cristiano.
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