
«Caro ingegnere, vedendo questa macchina ho capito che l’era della meccanica è finita»

Se questa storia fosse un romanzo americano comincerebbe dal principio, se fosse un racconto di Manzoni lo farebbe descrivendo lo splendido anfiteatro morenico di Ivrea, se invece fosse un classico film di John Landis non vedremmo che fabbriche, stabilimenti e gente che lavora, produce. Ma non è nulla di tutto ciò.
Per raccontare questa storia dobbiamo partire dal silenzio. C’è qualcosa di alienante, mortificante, nel silenzio dell’enorme complesso di Scarmagno, e non c’è niente di naturale nel silenzio di via Jervis con le sue fabbriche di vetro, o nel silenzio dell’ora di pranzo nella grande mensa di Monte Navale. A Ivrea, dove c’era l’Olivetti, oggi c’è solo un grande vuoto.
Ammutoliti gli uffici, gli stabilimenti e pure i citofoni: non si resiste dal suonare quando si vede scritto Olivetti, magari solo per scambiare due chiacchiere con un assonnato custode, ma dall’altro capo del filo non risponde più nessuno. Olivetti dorme un ventennale sonno profondo, così composta nel suo essere defunta che sembra viva, c’è ancora qualche presidente, amministratore o alto dirigente che di quando in quando si fa vivo al telegiornale, come in un perenne memento mori.
Chi lavora in via Jervis sono i call-center, Palazzo Uffici è un continuo ed ininterrotto vociare, indefinito ed indefinibile. Escono a frotte ad ogni cambio turno i ragazzi di vent’anni, non si guardano neppure intorno, scappano a recuperare l’auto nel parcheggio più vicino e fuggono da questo mostro di cemento. C’è anche Equitalia in via Jervis, dentro gli uffici che furono di Olivetti, e ci sono altre aziende dai nomi ridondanti ma con i parcheggi riservati miseramente vuoti. E poi di nuovo e ancora il silenzio appena girato l’angolo, per quanti possano essere i lavoratori superstiti non riempiono che poche stanze e c’è chi dice, non a torto, che il 70 per cento degli immobili olivettiani di Ivrea sia attualmente dismesso.
Nel centro storico della cittadina, in poche stanze di un palazzo sabaudo come tanti, c’è tutta la storia di una comunità che seppe essere prima e meglio ciò che ora rappresenta la Silicon Valley. Se la città eporediese non se la passa bene, neppure il museo Tecnologi@mente gode di ottima salute: entro pochi mesi dovrà restituire gli spazi che occupa alla scuola che lo ospita, e Ivrea perderà l’unico spazio che parla della sua storia più intima e recente.
Il piccolo museo Tecnologic@mente è il capolavoro di una comunità che racconta l’eterna favola del calabrone: non avrebbe dovuto volare ma non lo sa, quindi lo fa lo stesso. Ivrea e l’Olivetti sono questo: non sarebbero dovuti diventare il centro della rivoluzione informatica, hanno provato a farglielo capire in ogni modo e per tutta risposta questi calabroni piemontesi hanno inventato il primo personal computer e sono stati per trent’anni la punta di diamante dell’elettronica.
“Nel 1953 la mia matricola era 12645” racconta Enrico Cappellaro, una carriera infinita in azienda partendo dalla scuola di formazione meccanici su fino alle soglie della dirigenza passando per l’officina e l’elettronica, “la mia nel 1961 era 35503” gli fa eco Gastone Garziera, “Siamo arrivati ad essere 72mila nel 1972 tra Italia e estero. 40mila all’estero e 32mila in Italia circa, di cui 24mila ad Ivrea e dintorni. Ora mi sembra che Ivrea abbia 18mila abitanti”.
Gastone Garziera, uno dei padri del primo personal computer tenta di mimetizzare una faccia resa allegra da una vita di soddisfazioni dietro la folta barba “Adriano Olivetti, un secolo troppo presto. È morto nel 1960, nel 2060 forse si comincerà a parlare di storia” inizia a raccontare prendendo a prestito il titolo di un fumetto scritto da Marco Peroni. “Adriano ha fatto, secondo me, un solo errore: ha tenuto troppi pochi soldi per sé e la famiglia. Quando è mancato lui, finito il boom economico, l’azienda aveva reinvestito tutto facendo quella mossa fondamentale dell’acquisto della Underwood perché aveva capito che per entrare nel più grande mercato di allora, gli Stati Uniti, bisognava essere di casa. La Underwood si è però dimostrata messa peggio di quanto credessero. Un pozzo senza fondo da risanare. C’è chi dice che gli abbia fatto venire un coccolone”.
Adriano Olivetti, l’imprenditore rosso, il socialista liberale padre di quella folle ed entusiasmante esperienza sorta sotto il nome di Comunità, l’innovatore, muore il 27 febbraio 1960, da solo, in un vagone del treno che lo sta portando in Svizzera. Muore lasciando l’azienda in una delle sue periodiche crisi dovute ad una serie di investimenti di dimensioni sterminate che sotto la cenere covano però la spinta per una nuova rivoluzione.
“La cosa che ha fatto grande l’Olivetti, grande e ricca, è che usava la lamiera di ferro stampata che diventava un elemento equivalente del transistor perché erano le leve di lamiera che facevano degli AND meccanici, delle funzioni logiche meccaniche e quindi delle operazioni” la voce di Gastone Garziera cambia quando si va sul tecnico e gli si mette in mano un frammento di quei grandi puzzle tecnologici, la sua vera passione “la liquidità che l’Olivetti otteneva con le macchine meccaniche di Natale Cappellaro, ad esempio una Divisumma la prima al mondo a fare le quattro operazioni, deriva da questa tecnologia. Niente meccanica di precisione, queste macchine venivano tarate con delle pinzette e c’erano tolleranze enormi tra le varie componenti, eppure apparecchiature di precisione lasca facevano operazioni complesse. Macchine che costavano meno di 40mila lire venivano vendute a 400mila lire, a quel tempo, e i proventi completamente reinvestiti anche nel sociale”.
Ma Olivetti non è solo macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche, è anche informatica di cui Garziera ha molto da raccontare “la storia dell’informatica italiana comincia a Pisa nel 1955, a quel tempo tre università italiane avevano ricevuto un finanziamento per farsi ciascuna il proprio acceleratore di particelle. Rientrato in patria Enrico Fermi, l’Italia aveva messo in piedi il CNR decidendo così di abbandonare l’idea dei tre acceleratori per realizzarne uno solo a Frascati. Le tre università avevano ancora a disposizione il finanziamento e non sapevano che farne, così Fermi suggerì secondo me, dovete mettervi a studiare i calcolatori elettronici”.
Il premio Nobel era consapevole dell’importanza di quella nuova tecnologia: erano i calcolatori quelli che avevano permesso all’America di vincere la guerra attraverso lo sviluppo della bomba atomica, e se l’università di Milano decise di seguire l’indicazione di Fermi comprandone uno già bello e pronto, Pisa preferì costruirsene uno in casa chiedendo l’aiuto delle imprese italiane. L’unica azienda a rispondere fu Olivetti.
“Adriano in quel settore già ci bazzicava perché il fratello Dino aveva allestito un laboratorio nel Connecticut per tenere sotto controllo quella tecnologia. Sempre negli Stati Uniti aveva trovato Mario Tchou, figlio di un diplomatico cinese in Vaticano, che a 29 anni aveva la cattedra di ingegneria elettronica alla Columbia University” continua Garziera “Olivetti convinse Tchou a venire in Italia, e a Pisa si mise a lavorare alla CEP, Calcolatrice Elettronica Pisana a valvole. Dopo un po’ si sono separati, l’università e l’Olivetti, perché Adriano voleva una macchina commerciale. Nel 1958, se non sbaglio, da Pisa il gruppo di ricerca si sposta a Borgolombardo. Nel 1959, dopo tre step di prototipazione sono arrivati a lanciare l’Elea 9003 che è riconosciuto come il primo calcolatore elettronico completamente a transistor”.
Mario Tchou è una di quelle figure geniali che si affacciano nella storia dell’azienda e che a distanza di decenni continuano a suscitare ammirazione “la meraviglia è che, partendo nel 1955 sono passati per tre step, hanno fatto un primo prototipo a valvole e la macchina è stata utilizzata a Ivrea per qualche magazzino, la V0. Una con un po’ di transistor, sostanzialmente a valvole ma con qualche transistor, V1, e io l’ho vista quando mi ha chiamato Tchou per il colloquio in via Clerici. Al piano terra c’era la V1 che serviva per l’amministrazione della Consociata Italia e io ho visto farle manutenzione mentre attendevo il colloquio: ho visto un ragazzo con una cesta di vimini che tirava via le valvole, faceva manutenzione preventiva: tutte valvole buone, ma dopo un certo numero di ore le sostituivano, e io che facevo 10 chilometri in bicicletta per andare a Vicenza per comprarmi una resistenza nel vedere che buttavano valvole buone sono trasecolato”. Gastone Garziera si fa enfatico: “In quattro anni, un gruppo nuovo di persone, che si immetteva in quel settore, partiva dalla tecnologia a valvole che era lo stato dell’arte e arrivava a quel livello mettendo in produzione un mainframe di quel genere… Secondo me stupisce, ha fatto paura anche agli americani”.
Mario Tchou muore poco dopo Adriano Olivetti e tocca al figlio di quest’ultimo, Roberto, prendere in mano l’azienda. Sono anni difficili, il boom si è progressivamente affievolito e gli studi per l’elettronica così come l’acquisizione della Underwood, la concorrente americana, hanno prostrato le finanze aziendali. Nel 1964 i capitani coraggiosi dell’industria italiana, guidati dal deus ex machina della Fiat Vittorio Valletta e da Mediobanca, intervennero per ricapitalizzare l’azienda. Volevano risanarla impartendo anche una lezione al modello Olivetti, fatto di welfare e comunità, e per farlo decisero di vendere la divisione elettronica all’americana General Electric.
A Borgolombardo sopravvisse solo uno sparuto gruppo di esuli guidati dall’ingegner Roberto Perotto che riuscirono con qualche espediente a rimanere in Olivetti: con la complicità della dirigenza, nottetempo, furono cambiati i titoli dei progetti da calcolatori, elettronici per definizione e quindi di competenza dei nuovi padroni americani, in calcolatrici, più in linea con la produzione meccanica che rimaneva in capo a Olivetti. Per mesi il gruppo di Perotto lavorò nell’ombra, con i vetri del laboratorio dipinti di nero per evitare sguardi indiscreti.
Roberto Olivetti aveva affidato all’ingegner Perotto un compito che meritava tanta riservatezza: trasformare l’elettronica da qualcosa di complicato ed ingombrante a cui solo pochi e selezionati programmatori in camice bianco avevano accesso in un prodotto di largo consumo, che potesse trovar posto sulla scrivania di chiunque.
“Perotto diceva adesso l’Elea ha la memoria a nuclei, ma se noi mutuiamo la sua tecnologia della memoria non facciamo niente di quanto ci è richiesto perché oltre a essere intrinsecamente troppo costosa è anche intrinsecamente troppo grande e quindi non riusciamo a fare un oggetto da mettere sulla scrivania ed economico” Garziera è un fiume in piena, l’avventura con Perotto è stata il suo primo impiego, tra il diploma e il servizio militare, i ricordi di gioventù si sommano alle emozioni, l’entusiasmo dopo cinquant’anni non è stato ancora domato “la Ferranti negli anni 40 aveva fatto dei calcolatori che utilizzavano la cosiddetta linea magnetostrittiva ricavata da un principio che aveva scoperto Joule: la magnetostrizione. Ci sono dei metalli che, sottoposti a un campo magnetico, se lo fai variare variano la loro dimensione. Un pezzo di filo di nichel, una bobinetta all’estremità, si immette corrente, si crea un impulso magnetico e quel periodo si allunga per mezzo microsecondo. Questo genera un’onda meccanica. Tu in fondo crei un altro campo magnetico e misuri, viene fuori un impulsino. Se tu fai una circuiteria elettronica che ti tiene sotto controllo il tempo, un impulso dura 1 millisecondo, la durante è 300 millisecondi, hai una memoria di 300 bit, li organizzi in byte e i byte in registri: quella è una memoria. Perotto andò al laboratorio di fisica di Borgolombardo per chiedere che gli realizzassero una linea magnetostrittiva su cui lavorare e questi gliel’han fatta su una tavola di legno di risulta, forse avevan rotto una porta, chi lo sa”. Perotto e i suoi avevano finalmente una memoria compatta ed economica per la Programma 101 o, com’era conosciuta allora, la Perottina.
“Una volta definita la memoria, abbiamo arricchito la macchina delle funzioni che la rendessero interessante. C’erano delle macchine meccaniche che erano in grado di ripetere delle funzioni, erano le cosiddette macchine a learn, e ci siamo detti: perché non farne una? Abbiamo scartato l’idea perché l’ing. Perotto, memore delle sue esperienze al settore aereonautico della Fiat in cui doveva risolvere complicate operazioni, preferì impostare la macchina per la risoluzione di complesse equazioni di secondo grado e superiori. Una macchina programmabile, con un linguaggio semplice. L’Elea faceva qualsiasi cosa, ma servivano fior di programmatori anche solo per programmare una singola operazione. Nella Programma 101 ogni istruzione ha un simbolo e un richiamo in tastiera, e ci sono solo 15 istruzioni. Tutta la memoria sono 1920 bit, 240 byte da 8 bit ciascuno, 10 registri di 24 byte ciascuno”. Una potenza di calcolo degna di una radiosveglia dei giorni nostri, e delle 44mila Programma 101 una decina servì alla Nasa per mandare l’uomo sulla luna.
Una scheda magnetica su cui registrare e recuperare i programmi, una memoria semplice e rivoluzionaria, una stampante compatta e veloce scovata nei cassetti dei progetti troppo folli per essere presi in considerazione e una lucetta verde intermittente, senza nessuna funzionalità pratica se non far capire all’operatore che la macchina è in funzione e sta svolgendo le sue operazioni. Era nato il primo personal computer.
Fatta la macchina bisognava convincere la dirigenza dell’azienda, orfana delle visioni di Adriano e Roberto Olivetti e dell’intero gruppo di Mario Tchou, a prendere in considerazione la Perottina “al momento della presentazione io feci l’operatore, l’ing Perotto spiegò a questo vecchio meccanico come funzionava la linea magnetostrittiva. Si era creata una tensione incredibile, 30 secondi di riflessione sono lunghi. Perotto era in silenzio. Cappellaro gli ha messo la mano sulla spalla e gli ha detto “caro ingegnere, vedendo questa macchina ho capito che l’era della meccanica è finita”. Natale Cappellaro, il padre di tutte le macchine meccaniche che avevano reso grande l’Olivetti, aveva capito che quella era la tecnologia del futuro e gli altri, se l’hanno capito, l’hanno capito quando la concorrenza ci ha obbligati a cambiare”.
Programma 101 debutta in sordina alla Fiera Mondiale di New York del1964, l’Olivetti le aveva preferito la Logos 27, l’ultimo gioiello della sua divisione meccanica. Fu il pubblico della fiera a chiedere a gran voce una sede consona per l’unica 101 relegata in un angolo dello stand, stupito e sedotto dalla sua modernità e dal design rivoluzionario firmato da Mario Bellini. Era la stagione degli Sputnick e del programma Apollo, e la perottina in pochi secondi si dimostrava capace di calcolare l’orbita di un satellite tra le acclamazioni dei visitatori.
Nel silenzio che oggi aleggia per via Jervis, non si sente più il rumore delle macchine Olivetti e con esso la sinfonia di cuori, anime e intelligenze che le animavano, e questo silenzio del lavoro e delle coscienze è forse uno dei crimini più efferati che l’uomo moderno abbia saputo commettere.
Foto Ansa
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