
Carlo Nordio: «Una rivoluzione copernicana per la nostra giustizia»

Questa intervista è stata realizzata a Milano il 2 marzo 2022
Emanuele Boffi: Carlo Nordio, magistrato, ex procuratore aggiunto di Venezia, protagonista di inchieste storiche dalle Brigate rosse venete a Tangentopoli. Siamo qui nella sede dell’editore Guerini, che ringraziamo, e proprio per l’editore Guerini lei ha dato alle stampe il suo ultimo libro che si intitola Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura. Vorrei iniziare con una frase che lei scrive all’inizio del libro e che mi è sembrata significativa. La leggo: «Tangentopoli era la malattia, e Mani Pulite la cura. Anche se quest’ultima, come spesso capita, si è rivelata più dannosa della prima». Poi, più avanti, scrive ancora: «La magistratura avrà anche esercitato di fatto una funzione di supplenza politica, ma è stata quest’ultima a consentirglielo con una ritirata precipitosa e un’abdicazione miserevole».
Ho scelto queste due frasi perché mi sembra che condensino molte delle cose che lei poi illustra bene nel libro. Siamo nell’anniversario di Tangentopoli e quindi dobbiamo pensare storicamente e quindi ritornare indietro nel tempo e ricordarci che cos’era il sistema politico di allora. E quindi chiederci che cosa non andava. Al tempo stesso, lei, Nordio, come noi di Tempi, non crede che dietro le mosse della magistratura ci fosse un “grande vecchio”. Noi escludiamo complotti, però, al tempo stesso, non possiamo non accorgerci come in questi anni ci sia stato da parte della magistratura un’invadenza nel campo politico. Perché avvenne questa invadenza?
E, terzo fatto, come lei giustamente dice, c’è stata una “ritirata della politica”, e c’è stata non solo in quella stagione, perché noi potremmo dire che avviene anche oggi. Lei racconta degli anni di Berlusconi, degli anni di Matteo Renzi, si arriva fino al caso Salvini… E quindi il problema è: come riequilibrare oggi questo rapporto tra magistratura e politica?
Ho detto molte cose: ritorno sulla frase iniziale: «Tangentopoli era la malattia, e Mani Pulite la cura. Anche se quest’ultima, come spesso capita, si è rivelata più dannosa della prima». Quando ha scritto questa frase, che cosa pensava? Che cosa voleva dire?
Carlo Nordio: Le due espressioni, Tangentopoli e Mani Pulite, nella vulgata dei giornali sono rappresentate come sinonimi, come due aspetti equivalenti. In realtà, esprimono due concetti diversi. Tangentopoli è la corruzione che aveva invaso tutta la politica e anche l’imprenditoria in quegli anni. Mani Pulite, invece, è l’intervento della magistratura per correggere o anche per punire questo fenomeno. La tesi del libro è che siano stati entrambi dei fallimenti. Nel senso che la cura contro la corruzione non ha funzionato e la corruzione esiste ancora. L’ultimo episodio, quello del Mose che io ho coordinato a Venezia, ha rappresentato uno sperpero di denaro pubblico addirittura maggiore di tutta la Tangentopoli del ’92-’93 messa insieme perché parliamo di parecchi miliardi di euro. E quindi possiamo concludere che la lotta alla corruzione, nonostante i proclami anche del governo (soprattutto quella volta in cui Di Maio disse: «Abbiamo sconfitto la corruzione»), è fallita. Allo stesso tempo, è fallita, anzi, si è degradata la magistratura. Perché, investita in quel momento di questo compito gravoso, ma utile, necessario, di punire la corruzione, col tempo – e già i sintomi si vedevano nel ’92-’94 – ha assunto un ruolo che non era il suo, ha addirittura sconfinato nell’arroganza, talvolta anche nella violazione dei diritti individuali costituzionali dei cittadini, ha manifestato una auto-certificazione di virtù, una autoreferenzialità che poi si è vista esprimersi nella degenerazione del fenomeno correntizio e, alla fine, con Palamara, abbiamo visto che questo sistema era una pergamena marcita.
Di tanto in tanto, io uso un’espressione di un giornalista che ammiro molto che è Paolo Mieli, che peraltro è noto per la sua prudenza e per la sua attenzione alle parole, che ha definito un «verminaio» quella situazione, quindi un giudizio estremamente negativo. In conclusione, sia la lotta alla corruzione sia l’intervento della magistratura nella lotta alla corruzione si sono dimostrati due fallimenti.
Posso aggiungere che, trent’anni fa, l’intervento severo della magistratura – al quale ho partecipato anche io, anche talvolta con delle misure di custodia cautelare che, col senno di poi, potevamo ritenersi legittime, ma non necessarie – è avvenuto perché abbiamo visto l’inferno. Mani Pulite non è stata inventata dai magistrati. Il sistema era corrotto e il finanziamento dei partiti era clandestino e illegale, diffuso ai cinque partiti di governo e, ovviamente, al partito di opposizione principale, il Partito comunista, con rigorosi criteri di proporzionalità. Quindi: socialisti, democristiani e comunisti godevano di ampi privilegi illegali e clandestini e poi anche i partiti minori. Il partito comunista, poi Pds, non è vero che abbia avuto un trattamento di favore in senso stretto.
Come cerco di spiegare nel libro, loro avevano un sistema di finanziamento illegale, clandestino, criminoso del partito che però era molto più sofisticato, indiretto e molto più difficile da dimostrare degli altri partiti. Per di più, quando magari si interrogava in vinculis un democristiano o un socialista, egli era molto disposto a collaborare e ad ammettere che avesse preso i soldi per il partito, mentre – Greganti insegna – quando veniva preso con le mani nella marmellata un esponente comunista o si rifiutava di collaborare o, al massimo, diceva che i soldi non erano per il partito, ma per sé. Quindi le indagini erano difficili.
C’è stato un momento in cui lei, di fronte a questa corruzione diffusa che era suo compito indagare, capire e punire nel caso, ha pensato: “No, adesso anche noi magistrati stiamo esagerando, cioè stiamo facendo qualcosa che va al di là di quello che è il nostro compito”?
È stato quando ho visto, verso la fine del ’94, dopo le dimissioni di Di Pietro, che a Milano non era tutto oro quel che luccicava. Le dimissioni di Di Pietro sono state interpretate in vari modi. Io ricordo benissimo l’intervista del procuratore capo Borrelli che lo ha definito deludente o quasi un traditore. E da una serie di circostanze emerse anche nell’indagine di Brescia, che erano condotte dai colleghi Salamone e Bonfigli, mi ricordo un interrogatorio in cui Di Pietro fu sottoposto per una notte intera. E anche una serie di dibattimenti in tribunale dove sono emerse alcune anomalie di queste indagini. Lì si è iniziato a capire che qualcosa cominciava a non andare secondo le regole.
Per quanto riguarda le miei stesse indagini, a parte che anche io ho avuto un episodio doloroso di un suicida che non era in carcere, era stato incarcerato da me, e si è suicidato un mese o due mesi dopo, però ti rimane sempre la sensazione che tu possa essere stato una concausa di questo evento doloroso. Sono cose che ti fanno riflettere. Direi che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state, dal ’96 in poi, quelle valanghe di intercettazioni inutili per i processi, ma orientate esclusivamente ad offendere e delegittimare persone estranee alle indagini o, addirittura, a compromettere la loro carriera politica. Lì si è capito che la magistratura stava intervenendo in un terreno che non era il suo.
Parliamo un attimo di quest’ultima cosa che ha detto perché apre un fronte molto importante, cioè quello che negli ultimi anni viene definito il “circo mediatico giudiziario”. Parliamo delle intercettazioni. Oggi quasi non ci si accorge più del fatto che molto spesso sui giornali finiscono parole che non ci dovrebbero finire. Ci abbiamo fatto l’abitudine e, ovviamente, questa è una cosa che non va bene, ma, ormai, si dà per scontato che possa essere così. Dal punto di vista di Tempi questo è sempre stato un grande errore della stampa. Noi abbiamo sempre pensato e scritto questo, però, diciamo la verità, sono pochi in Italia quelli che si permettono di ricordarlo. C’è qualcosa da dire su questo aspetto dei media che certamente non aiutano a risolvere la situazione. Lei cosa ne pensa?
Penso che ci sia moltissimo da dire. Primo, il circuito mediatico iniziato proprio da Mani Pulite è stato perverso, nel senso latino di “deviato”, nel senso che molte notizie venivano date, pilotate, verso la stampa o un certo tipo di stampa amica, dai magistrati o con il consenso dei magistrati o con la mancata vigilanza dei magistrati (che poi è la stessa cosa) e, in cambio, poi la stampa restituiva il favore magnificando questi magistrati, dipingendoli come eroi destinati a cambiare la morale del Paese e, talvolta, spianando la strada a convenienti carriere politiche. Cosa che io ho sempre considerato quasi sacrilega perché è una sorta di strumentalizzazione della giustizia e del tuo lavoro.
Poi la diffusione delle intercettazioni è stata spesso confusa – e questo è un gravissimo errore – con la libertà di stampa, ignorando che quello che viene dato o consentito che venga dato ai giornali, non è frutto di una scelta del giornalista, ma è frutto di una selezione pilotata e conveniente da parte del magistrato o dell’avvocato a favore del suo assistito. E viene passato attraverso una sapiente selezione alla stampa amica la quale non ha la possibilità di controllare il contesto nel quale questa intercettazione viene fatta. E allora, seguendo il principio di Richelieu, «datemi una lettera e un paio di forbici e io farò impiccare l’autore», tu da quella conversazione che viene tagliata e selezionata non dai una rappresentazione falsa, non ti inventi le parole, ma dai una rappresentazione ingannevole perché, de-contestualizzando, dai un contenuto diverso da quello che è.
Faccio presente che io questo pericolo l’avevo già denunciato nel primo volume che ho scritto sempre per Guerini nel ’97, intitolato Giustizia, perché era proprio evidente questo pessimo andazzo che stava prendendo sia la magistratura sia la politica che si serviva di questo strumento di delegittimazione per colpire, e magari eliminare, gli avversari che non riusciva a vincere nella competizione elettorale.
La débacle e la ritirata codarda della politica è stata quella di consentire non solo che la magistratura acquistasse questa posizione di supplenza, ma addirittura di servirsi delle indagini della magistratura per colmare le sue debolezze nei confronti degli avversari, usando lo strumento dell’indagine giudiziaria – e quindi in questo caso dell’intercettazione in cui veniva in possesso illegittimamente – per colpire l’avversario. E da lì la palla di neve è diventata una valanga.
Ultima cosa. È vero quello che lei diceva all’inizio: noi ci stiamo abituando a questa situazione miserevole, vergognosa e anticostituzionale (perché la Costituzione tutela la libertà e la segretezza delle conversazioni in modo assoluto salvo i casi eccezionali previsti dalla legge). Anche questo pericolo l’avevo denunciato nel ’97 perché avevo scritto, e lo ribadisco, che il rischio che noi correvamo era quello di perdere questi diritti costituzionali per mancato esercizio. Un po’ come per la prescrizione. Quando tu non eserciti un diritto, alla fine lo perdi anche se è indisponibile e imprescrittibile. E noi ci siamo abituati a questo e questo è una vergogna assoluta, oltre a essere incostituzionale perché confligge con l’articolo 15 e con tutti i principi della Costituzione.
La politica ha battuto in ritirata, però su un fatto è intervenuta, anche se lei lo critica: sulla corruzione la politica non ha estirpato il problema, ma ha aumentato a dismisura le leggi e gli enti. Eppure questo, se stiamo ai fatti, non è servito. Perché?
Perché è un’arma completamente sbagliata. È una illusione puerile, infantile, che la pena severa, la pena gridata o la pena esemplare – come si dice – possa, già in linea generale della criminologia, essere un deterrente contro il crimine: chi commette un crimine a tutto pensa, tranne al fatto di essere individuato e punito. Questo vale per il rapinatore e vale per il corrotto e il corruttore: non vanno a leggersi prima il codice per vedere qual è la pena prevista.
Poi va detto che in Italia, come noto, vi è una certa indulgenza nell’applicazione della pena, nel senso che tanto è facile entrare in prigione prima del processo, quando si è presunti innocenti, poi è facile uscirne quando si è colpevoli conclamati. Questa è una delle tante contraddizioni del nostro sistema penale.
E da ultimo va detto che l’arma con la quale il corrotto deve essere colpito non è tanto la minaccia di una pena platonica, futura e incerta, che peraltro – ripeto – non ha nessun effetto deterrente, non lo devi intimidire: tu lo devi disarmare. Cioè tu devi togliere al corrotto le armi che gli consentono di farsi corrompere. E quali sono queste armi? Sono le leggi. Le leggi in Italia sono così numerose, così oscure, così contraddittorie che seguendone una, tu, magari, ne violi un’altra. E questo conferisce al pubblico amministratore una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. Quindi se il cittadino postulante che chiede una licenza, un appalto, deve – come deve – bussare a cento porte perché c’è una diffusione enorme di competenze, invocando cento leggi estremamente complicate, aumenta di molto il rischio che una porta rimanga chiusa finché non arriva qualcuno a dirti che devi ungere la serratura.
Allora qual è il rimedio? Disarmare il corruttore? Tu devi semplificare le competenze, o meglio, individuare le competenze, e semplificare le procedure. Se tu devi bussare a una porta sola invocando una legge chiara, è molto meno probabile che quello che sta dietro ti dica che qualcosa non funziona perché la serratura è quella e quella è la chiave. Mentre se le serrature sono cento e le chiavi sono mille questo rischio aumenta a dismisura.
Arriviamo ai giorni nostri. Le faccio una domanda secca: che cosa abbiamo imparato dal cosiddetto scandalo Palamara?
Molti di noi non hanno imparato nulla perché sono cose che sapevamo perfettamente. Anche qui, è orribile citare se stessi, però sono vent’anni che queste cose le scrivo. Ho anche scritto nel mio ultimo libro che sono stato chiamato davanti ai probi viri dell’Associazione nazionale magistrati per aver scritto queste cose, sempre con Guerini editore, vent’anni fa.
Cosa abbia imparato il cittadino, ecco, questo è diverso. Il cittadino ha sempre avuto nei confronti della magistratura un atteggiamento oscillante. Talvolta li ha visti [i magistrati] come eroi, e alcuni eroi ci sono stati, hanno anche dato la vita per la giustizia. Parliamo non solo dei soliti Falcone e Borsellino, ma dei dieci colleghi caduti durante il terrorismo, molti dei quali io conoscevo abbastanza bene, [uccisi] dalle Brigate rosse, da Prima linea o dal terrorismo nero. Quindi questa visione del magistrato mezzo eroe non era del tutto ingiustificata.
Nello stesso tempo, come spesso accade, il potere – in questo caso il potere giudiziario – viene visto con un misto di riverenza, di timore, ma anche di diffidenza e talvolta anche di ostilità. Quindi è un sentimento molto complesso, che però nei confronti della magistratura è sempre stato, per decenni, fino a qualche anno fa, più orientato al consenso che non al dissenso. E i nostri sondaggi lo dimostravano, che avevamo una credibilità presso i cittadini quasi quanto quella dei carabinieri e della Chiesa. Mentre adesso siamo precipitati pericolosamente vicino a quella dei politici, che sono, come è noto, al livello più basso.
Quindi i cittadini hanno capito quello che molti di noi sapevano già, che dietro a questo paludamento di toghe esisteva un mercimonio di cariche, proprio una baratteria politica peggio di quella dei partiti, che per altro è stata superata in gravità dagli scandali che hanno colpito addirittura la procura simbolo di Mani pulite, che è questa di Milano. Dove abbiamo avuto il procuratore capo che adesso è andato in pensione ma che è stato indagato, due procuratori aggiunti indagati, un sostituto procuratore rinviato a giudizio (stanno procedendo per il giudizio abbreviato), un ex simbolo di Mani pulite finito al Csm, il dottor Davigo, rinviato a giudizio per un reato molto grave… Beh, questo secondo me è ancora più grave del pur gravissimo scandalo Palamara. Quindi direi che oggi la magistratura ha toccato il fondo, o rischia di toccare il fondo di credibilità, perché il peggio potrebbe ancora arrivare.
Le leggo una cosa che lei ha detto in una intervista al Riformista: «Noi abbiamo un sistema giudiziario schizofrenico: da un lato un codice di procedura penale, firmato da una Medaglia d’argento al valor militare per aver preso parte alla Guerra di Liberazione (Giuliano Vassalli, ndr), saccheggiato e demolito perché incompatibile con la Costituzione. Dall’altro un codice penale che è del 1930, firmato da Benito Mussolini e dal Re, che gode di ancora di ottima salute. Tutto ciò dimostra che nel nostro paese se non si fa una riforma costituzionale radicale non si risolvono i problemi di fondo, in quanto la nostra Costituzione ha demolito il codice Vassalli e ha tenuto in piedi quello fascista».
Questo è uno dei punti forti del libro. Lei usando un’immagine parla di una sgangherata Cinquecento con il motore truccato di una Ferrari, una immagine che ci aiuta bene a capire il problema. È una macchina che non può funzionare per quanta benzina noi le mettiamo dentro. Bisogna cambiare veicolo, lei scrive, ci vuole una Ferrari, vera, costosa, ma veloce come il sistema anglosassone. Cioè, lei arriva a dire, «bisogna cambiare la Costituzione». Ci spiega perché? Lei parla di una rivoluzione. Perché bisogna fare la rivoluzione? Perché è arrivato a questa conclusione?
Qui il discorso è un po’ tecnico ma cercherò di tradurlo in termini chiari, logici più che tecnici. È accaduta una cosa molto singolare. Nella gerarchia delle fonti, la Costituzione ovviamente prevale sulle leggi ordinarie, quindi prevale sul Codice penale e sul codice di procedura penale, che se fossero in contrasto con la Costituzione dovrebbero essere (come qualche volta sono stati) dichiarati incostituzionali.
Cosa è accaduto tuttavia? È accaduto che quando nel ’48 è entrata in vigore la Costituzione i nostri padri costituenti, molti dei quali, a cominciare dall’onorevole Giovanni Leone che aveva scritto in gran parte il Codice di procedura penale, e facevano parte dell’Assemblea costituente, da un punto di vista tecnico non hanno adattato un Codice di procedura penale alla nuova Costituzione, ma hanno scritto una Costituzione avendo in mente il Codice di procedura penale Rocco, quello fascista. Per cui hanno introdotto nella Costituzione, costituzionalizzandoli, dei princìpi che sono tipici del codice inquisitorio, come è il codice Rocco: l’unità delle carriere, l’obbligatorietà dell’azione penale, l’irretrattabilità dell’azione penale, la struttura del pubblico ministero come cosiddetta parte imparziale, la unità tra il giudice del fatto e giudice del diritto (quello che emette il verdetto e quello che emette la sentenza, che da noi sono uniti), e altre cose.
Tutto questo è entrato nella Costituzione. Quando nel 1988 Giuliano Vassalli, medaglia d’argento della Resistenza, scrivendo con giuristi cresciuti sotto la Costituzione repubblicana nata – come si dice – dalla Resistenza, hanno scritto il nuovo Codice di procedura penale, non si sono accorti, o meglio si sono accorti ma – per una ragione che magari dopo le dico – hanno voluto licenziarlo lo stesso, che il codice anglosassone, che loro volevano introdurre, cioè il codice alla Perry Mason, così è chiamato, era incompatibile con la Costituzione.
Perché il codice anglosassone funziona come una Ferrari a certe condizioni: discrezionalità dell’azione penale, separazione delle carriere, ritrattabilità dell’azione penale, differenza tra il jury che emette il verdict e il giudice che emette la sentence, eleggibilità del pubblico ministero che risponde – soprattutto nel sistema americano – se sbaglia le indagini o se fa tante indagini inutili e costose. Allora ecco la Ferrari col motore della Cinquecento: hanno voluto introdurre, scopiazzandolo, questo codice di procedura penale alla Perry Mason senza accorgersi che la Costituzione era scritta guardando il codice inquisitorio Rocco. E allora cos’è accaduto? Che nella gerarchia delle fonti, poiché la Costituzione prevale, gran parte del Codice Vassalli è stata demolita dalla Corte costituzionale. E quindi abbiamo preso una Ferrari che è stata smontata, e al suo posto è stato il motore della Cinquecento, che era quello previsto dalla Costituzione.
Uno dice: ma come hanno fatto a prendere questa cantonata? Beh, qui le posso raccontare un episodio personale. Quando io presiedevo la commissione per la riforma del Codice penale (un’altra cosa), sono stato a cena una sera con il professor Vassalli e queste cose gliele ho chieste: «Con grande rispetto professore, ma lei come ha fatto a introdurre questo Codice senza modificare la Costituzione?». Tra l’altro, Vassalli poi è andato lui alla Corte costituzionale, e dalla Corte costituzionale ha cominciato a contribuire alla demolizione del suo stesso Codice. Ecco la schizofrenia. E lui ha risposto: «Intanto quello che ho fatto come ministro della Giustizia non potevo ripeterlo come giudice costituzionale», e poi ha ammesso che in quel momento la pressione politica per avere un nuovo codice alla Perry Mason era tale per cui è stato praticamente costretto a licenziarlo (ovviamente non lo ha fatto lui: lo ha fatto il Parlamento). Tutto questo però ha portato a questa discrasia di ordine tecnico.
Il secondo paradosso è che invece il Codice penale, quello che disciplina non il processo, ma i delitti e le pene, è del 1930 ed è ancora lì, ed è firmato da Benito Mussolini e da Vittorio Emanuele III e gode ancora di una salute relativamente buona, tanto è vero che le commissioni istituite, compresa quella presieduta da me e poi da Giuliano Pisapia (con cui abbiamo scritto insieme quel libro, sempre per Guerini), sono rimaste nel cassetto e il codice è ancora lì. Questo cosa significa? Significa che se tu non cambi la Costituzione non esci da questa contraddizione: hai il codice fascista – non lo dico neanche con disprezzo, lo dico da un punto di vista storico – perché il nostro codice è impregnato di ideologia fascista, nel bene e nel male, però è incompatibile per esempio con una legislazione liberale.
Lo si vede adesso, per esempio: quando si discute di diritto alla vita la Costituzione ti dice che tu non puoi essere sottoposto a una cura contro la tua volontà, perché la Costituzione in questo caso è più liberale, ma il nostro Codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente, ti dice che il diritto alla vita è un diritto indisponibile. E se tu leggi la relazione di accompagnamento al codice penale scritta da Manzini nel 1930, ti dice che la vita è indisponibile perché la vita dell’uomo appartiene allo Stato fascista che deve farne un buon cittadino e un buon guerriero. E quel codice è ancora lì.
Arriviamo a un altro argomento di attualità. Questa è l’ultima domanda e ovviamente è sui referendum sulla giustizia. Lei si è espresso a favore. Ci può spiegare perché?
Volentieri. Perché in Italia i referendum, soprattutto quelli più importanti, hanno avuto un significato che andava molto oltre quelli che erano i contenuti dei quesiti.
Faccio due esempi significativi (li ho fatti anche nel libro). Quando nel ’74 si è votato per il divorzio – quelli che sono giovani non lo sanno ma chi è meno giovane se lo ricorda – in realtà il referendum era stato così politicizzato che è stato un quesito pro o contro la Democrazia cristiana, ed essenzialmente pro o contro l’onorevole Fanfani. Ha vinto il divorzio, però hanno perso i liberali, i repubblicani, i radicali… e l’anno dopo è andato al potere il Partito comunista che si era appropriato della vittoria.
Molto più di recente, pochi anni fa, si è ripetuta la stessa cosa nel referendum sulla istituzione (o la eliminazione) di una Camera, quello voluto da Renzi: Renzi ha così personalizzato quel referendum che invece di votare questo aspetto di riforma costituzionale gli italiani si sono decisi a votare pro o contro Renzi. Renzi ha perso, se pure in modo molto onorevole, e si è vista la conseguenza: lui se n’è andato e in Parlamento sono andati i grillini, nemmeno quelli che avevano patrocinato questo referendum.
Con la giustizia è la stessa cosa: al di là dei singoli quesiti – uno è stato dichiarato inammissibile, gli altri possono anche avere delle perplessità tecniche, ma il problema non è questo, il problema è il messaggio. Io sono convinto che se questo referendum passasse con una buona maggioranza darebbe un messaggio al Parlamento – non quello attuale che non ha la possibilità, la voglia e il tempo di fare le riforme, ma soprattutto al prossimo. Si darebbe un messaggio vincolante che suonerebbe così: noi cittadini italiani vogliamo che la giustizia cambi radicalmente. Ecco la rivoluzione copernicana. E se il messaggio arrivasse direttamente dai cittadini credo che la politica non potrebbe e non dovrebbe ignorarlo.
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