
Carissimo professore…
Lei ha operato 27mila persone, e non di tonsille. Lei è stato il primo al mondo, nel 1949, a eseguire un trapianto di polmone e a inventare la chirurgia d’urgenza in Italia. Ha tenuto in mano il bisturi per 50 anni e il nostro amico Emiliano Ronzoni deve la vita a lei. Adesso, grande chirurgo Vittorio Staudacher, lei dice a Stefano Lorenzetto che lo ha intervistato per Il Giornale (18 maggio 2003) che «una volta mi sentivo padrone della vita e della morte». Poi, dall’8 di marzo del 1965, dal giorno che un figlio gli «morì in piedi», così, «forse un infarto, forse una fibrillazione ventricolare», così, «mentre passeggiava per Milano con la sua ragazza» dice che «da allora direi che ho fatto il mio lavoro con più generosità. In ogni paziente vedevo mio figlio, la sua stessa giovane età, la sua stessa voglia di vivere».
Il nulla e le stelle
Lei ha 90 anni, professore, e li porta magnificamente bene. Con una consapevolezza seria della condizione umana: «Il benessere è la fata morgana» lei dice, la realtà è che «Siamo dentro la moltitudine di uomini che abitano la Terra. Come si fa a non partecipare al pathos universale? Dovrei essere privo di sensibilità per non pensare a tutti i miei simili che patiscono». C’è una sola persona al mondo a cui lei sembra far mancare questo sguardo di profonda, virile compassione: la sua. «Questa intervista è inutile» lei dice a Stefano Lorenzetto. «Si guarda le mani, le mani deposte in grembo» e dice: «Io non sono più niente. Senza l’ospedale, senza la sala operatoria, m’è venuto a mancare tutto». «Vegeto nei ricordi», dice. «Questa intervista è inutile», ripete. Lei si rianima solo quando Lorenzetto le racconta un divertente aneddoto su Palmiro Togliatti e Pietro Valdoni («il più grande chirurgo che l’Italia abbia mai avuto», secondo lei), il quale operò il leader comunista dopo l’attentato di cui rimase vittima il 14 luglio 1948. Il segretario del Pci aveva ricevuto dal luminare una parcella salata, l’aveva pagata, aveva protestato: «Eccole il saldo, ma è denaro rubato». E Valdoni rispose: «grazie per l’assegno. La provenienza non mi interessa». Viene da sorridere, no? Una battuta formidabile. E invece, annota l’intervistatore, lei ha avuto «una stranissima reazione, l’unica dell’intervista: anziché ridere, piange». Poi, due domande più in là: «Dopo la morte cosa c’è?», lei risponde: «Il nulla. Con una partecipazione armoniosa all’energia che muove il sole e le stelle». Ma allora: “il nulla”, oppure “qualcosa”? Stiamo seguendo il filo delle sue osservazioni, professor Staudacher. E se solo fossimo stati lì, con Lorenzetto, nel suo maniero in Valsugana, delle sue lacrime, professore, per asciugarle.
Sintesi di Leopardi e Dante
Caro professore, lei dice: «Il nulla». E poi subito dopo: «Con una partecipazione armoniosa all’energia che muove il sole e le stelle». Che singolare ossimoro: “nulla” e tutto il conseguente che esplode di “essere”! Che felice sintesi di Leopardi e Dante c’è in queste sue parole! Eh, sì, perché nemmeno la nostra sconfinata e giusta tristezza, caro professore – sì, giusta tristezza, perché dovremo lasciare ai vermi la nostra più o meno brillante “carrozzeria”, prima o poi, così e cosà, sotto un monumento sepolcrale, e senza che neanche alla maggior parte di noi possa capitare che i versi sublimi della poesia di un Leopardi ne tramandino la memoria ai posteri – può gettare una sola ombra su quell’altra vicenda che “nulla” non è: l’evidenza che qualcosa c’è, che ci precede, e che se c’è precedendoci, non possiamo né eliminare, né incatenare al pensiero che si proietta con l’immaginazione al di là dell’orizzonte presente.
Miliardi di segni
Soppesiamo bene le sue parole, caro professore: (ci sarà) «il nulla», «con una partecipazione» (cioè come “con-partecipazione”), «armoniosa», «all’energia», «che muove», «il sole e le stelle». Però anche il sole e le stelle si spegneranno, un giorno. Ma lei non dice a loro: “siete nulla”. Lo dice a sé. Lo dice a quel granello di polvere che però, unico nell’universo, dice “io” e che dicendo “io”, se ci pensa, dice “libertà”. E questa “libertà” che, unica nell’universo, dice “io”, sarebbe l’unica cosa nell’universo destinata al “nulla”? Cosa c’è di certo, vero, reale: “il nulla” e il finire tutto nel “nulla” di tutto ciò che è stata una vita, e l’ospedale, e 27mila persone operate, e la donna che mi è stata compagna per 50 anni, e i figli, e quel mio figlio scomparso a 27 anni… o che “c’è qualcosa di indimenticabile”, una vita, l’ospedale, le persone, la donna, i figli, e che se anche tutti lo dimenticassero tutto ciò rimarrebbe vero? Ricorda, professore, lei non c’era e niente di ciò in cui lei si è imbattuto nella sua vita c’era perché aveva deciso lei che ci fosse: in fondo, ci è stato dato tutto, in un modo o nell’altro, ci è stato dato tutto, dalla morosa al bisturi, no? Ma se ci è stato dato tutto e tutto può esserci tolto da un momento all’altro, con quale ragionevolezza possiamo noi optare (perché di opzione si tratta) che tutto ciò ci è stato dato per “il caso” e ci verrà tolto per “il nulla”? O tutta la realtà è frutto di una natura intrinsecamente assurda e malvagia, direbbe Leopardi, oppure lei, come noi, abbiamo a disposizione – e non nella sfera delle idee o dei sogni, ma negli eventi quotidiani della comune condizione umana – miliardi di segni (dalla morosa al bisturi ai figli all’amore al phatos…) che indicano almeno un’altra ipotesi, come d’altronde implica lei stesso, e cioè che qualcosa c’è e che qualcosa sia destinato a durare oltre ogni possibile fine.
Contro il fatalismo, sempre
Dunque: le sembra ragionevole prendere tranquillamente per buona la prima ipotesi e tralasciare la seconda? Pensi: se lei si fosse rassegnato sul serio al “nulla”, ne avrebbe salvata una sola di quelle vite umane che ha salvato lottando accanitamente contro le fatalità e il fatalismo a cui spesso siamo tentati di rassegnarci (e a cui spesso ci rassegnamo)? Sarebbe stato quell’uomo di successo che lei è stato se non si fosse impegnato a studiare, a lottare, a combattere per affermarsi come chirurgo? E se vale la pena combattere per diventare chirurghi di successo, non crede che valga tanto più la pena di combattere il fatalismo che ci suggerisce di abbandonarci a un’opzione ultimamente non seria, irragionevole e comunque non auspicabile per il nostro destino, dopo tutto la cosa più importante che abbiamo tra le mani, il nostro destino? È questione di fede? No. È questione di ragione. E di ragione usata nell’al di qua. Perché per l’aldilà, contrariamente a quanto pensava Pascal, noi non crediamo che ci siano di mezzo scommesse e, anzi, ci pare francamente irragionevole farne questione di scommesse.
L’amico di tanti suoi allievi
Beh, scusi professore, volevamo solo dirle che, pensandoci bene, man mano che leggevamo e rileggevamo quelle sue parole, non “nulla” ci veniva da dire, ma, al contrario: “che grande mistero l’essere! Che grande mistero sono le cose, la vita, la morte!” E poi: “E noi non sappiamo niente! In realtà, noi, non sappiamo niente, niente!”. E ci è venuto in mente quel suo quasi coetaneo che lei conosce, caro professore, quel don Luigi Giussani di cui ha sentito da tanti suoi allievi che venivano ai suoi corsi, che sono stati suoi allievi di chirurgia e che sono quei ciellini che, ammetterà, erano e sono gente impegnata, anche se poveretti e incoerenti come tutti. Però cristiani non “a posto”, non borghesi, non tranquilli. Gente del popolo, e combattenti come lei. A loro, a un gruppo di ragazzi universitari come i tanti che ha avuto lei come allievi, ecco, anche recentemente l’amico Giussani ha detto parole che, scusi, ci permettiamo girare anche a lei, caro professor Staudacher:
Domandare l’essere all’Essere
«Provate a leggere Su Monte Mario di Giosuè Carducci, una bellissima poesia. Ma bellissima è soltanto per quell’affascinante spettacolo in cui l’ultimo uomo e l’ultima donna, sul globo diventato tutto ghiaccio, sono al limitare dello sguardo e del cuore umani… quest’uomo e questa donna, gli ultimi due esseri umani, guardano stupefatti (“con gli occhi vitrei”) l’impossibilità a vivere la vita di cui si erano sempre illusi, davanti al naufragio di tutto nel grande orizzonte di squallore della terra piena di deserto agghiacciante. Vi prego di limitare il vostro ragionamento, l’intensità di vostre paure, e vi prego di guardarle in faccia secondo questa visione, la cui finale è disastrosa, azzerante, là dove l’affermazione dell’essere diventa la nuova affermazione del nulla, perché da questo – che è possibile sempre commettere come generato dal peccato – possiate ricavare uno spunto per la vostra fedeltà alla fedeltà di Dio, perché in Lui non c’è mai infedeltà! Nell’Essere non c’è mai, non c’è possibilità di infedeltà all’essere! Comunque, vi prego di essere sempre nella vostra giornata appuntati sulla preghiera, sull’avamposto della domanda: la domanda è l’avamposto dell’uomo che va in battaglia; la domanda è un grido, è un grido che non deve trascurare la sua autocoscienza, l’autocoscienza per cui vibra ed è nato. Così che, non so, fra 50 anni, fra 500 anni, ci abbiamo a ritrovare tutti nella consolazione che l’Essere porta a chi non Lo distoglie, nell’affermazione del niente, dalla sua intensa partita». Domandare. Lo possiamo fare tutti, no?, professore? Lo posso fare io, lo può fare lei.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!