Cari fissati delle minoranze, i razzisti siete voi

Di Lionel Shriver
22 Giugno 2018
La scrittrice Lionel Shriver, attaccata da tutto l'establishment culturale britannico, continua la sua battaglia contro l'ossessione di dividere il mondo in quote per le "diversità"

Nei giorni scorsi la scrittrice americana Lionel Shriver è stata duramente attaccata per avere osato criticare dalle colonne del britannico Spectator la nuova politica per l’inclusione delle minoranze di un «editore mainstream» come il colosso Penguin Random House. La casa aveva dichiarato di essersi prefissata un obiettivo molto ambizioso: rispecchiare entro il 2025 la società britannica, tanto nel personale quanto nel catalogo degli autori. «Questo significa che vogliamo che i nostri autori e i nuovi colleghi riflettano la popolazione del Regno Unito per quanto riguarda l’etnia, il genere, la sessualità, la mobilità sociale e la disabilità», recita l’annuncio circolato via email.

Con il suo consueto tono politicamente scorretto, la Shriver si è permessa di ricordare che l’obiettivo di ogni editore dovrebbe essere pubblicare libri belli e basta, al di là di ogni preoccupazione sociologica. Una ovvietà che però le ha attirato fulmini e saette da tutto l’ambiente letterario britannico e non solo, oltre che dal solito “popolo del web”. Se la sono presa pesantemente con lei diversi scrittori (uno su tutti, l’anglo-pakistano Hanif Kureishi). La Shriver è stata cacciata dalla giuria di un premio letterario indetto dalla rivista femminile Mslexia. Il programma di formazione di Penguin Random House, 2016 WriteNow, ha scritto una lettera aperta accusandola di «vedere la diversità e la qualità come categorie mutualmente esclusive».

Per gentile concessione dell’autrice e dello Spectator, proponiamo di seguito in una nostra traduzione la sua «risposta ai miei critici», ospitata nel nuovo numero del settimanale britannico. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina

* * *

Cari allievi di 2016 WriteNow,

Molte grazie per la vostra lettera aperta. Mi pare una questione di buone maniere rispondervi.

Voi siete giustamente orgogliosi di essere stati ammessi a un programma stimolante alla Penguin Random House che serve a formare giovani autori dotati appartenenti alle minoranze e li aiuta a coltivare i loro talenti. Il mio editore, HarperCollins, porta avanti un programma simile, che gode del mio totale sostegno. Questo tipo di iniziative proattive derivano esattamente dall’approccio in cui credo anch’io per contribuire a variare le voci sui nostri scaffali. Ecco perché il mio commento di due settimane fa non conteneva una sola parola contro WriteNow. A dire il vero non ho fatto proprio riferimento al vostro programma.

Le mie scuse ai lettori dello Spectator, alcuni dei quali mi hanno contattato per comunicarmi che condividono quello che volevo dire, e nessuno dei quali è sembrato non capire che cosa volessi dire, né vergognarsi di trovarsi d’accordo con una tirata intollerante. Alla maggior parte di loro, questo articolo apparirà una rimasticatura contorta di una cosa che era perfettamente chiara la prima volta. Ma viviamo in un’epoca tetra e censoria. Magari in futuro sarà necessario scrivere ogni commento due volte. La prima con verve, allegria e brio. Dopo di che butterò giù una versione pedante, pesantemente prosaica e senza battute.

Ricapitoliamo: ho sollevato alcune obiezioni specifiche all’intenzione dichiarata da PRH di fare in modo che entro il 2025 sia il suo staff sia i suoi autori riflettano la popolazione britannica in quanto a razza, etnia, classe, disabilità, sessualità e genere. (Riguardo a quest’ultimo, la società potrebbe dover licenziare un mucchio di donne, dal momento che sono sovrarappresentate nell’editoria). Tali proporzioni demografiche sono misurabili statisticamente. Così, poiché PRH proclama che la progettata riconfigurazione della sua forza lavoro e del suo catalogo nei prossimi sette anni è una “aspirazione”, significa che l’aspirazione è quella di raggiungere quote numeriche.

Non mi piacciono le quote riservate alle diversità, nell’editoria come altrove. Possono indurre i reparti risorse umane nella tentazione di inseguire obiettivi aritmetici anziché assumere lavoratori competenti e possono spingere gli editori a valorizzare autori che fanno categoria anziché gli autori più bravi di qualsiasi estrazione. Se PRH puntasse onestamente a piazzare la sua roba tra le comunità delle minoranze che storicamente hanno pochi lettori, sarebbe geniale. Questo sì che è pensare come una società editrice, il cui principio guida dovrebbe essere ampliare il proprio mercato e vendere più libri. Tuttavia, l’esibizione di una versione angusta e rigida della diversità, invece che di una eccellenza commerciale e letteraria, può facilmente diventare un fine in sé. Con la rinuncia al giudizio del merito, la qualità potrebbe risentirne.

Fino a oggi, il Regno Unito non ha applicato intensivamente la discriminazione positiva, che perciò può ancora sembrare un impegno generoso. Ma gli Stati Uniti hanno perseguito fermamente quella che chiamiamo “affirmative action”, soprattutto nell’educazione, per quasi 50 anni. L’esperienza americana è un monito.

Combattere l’ingiustizia con una ingiustizia maggiore, e il razzismo con un razzismo maggiore, è filosoficamente contradditorio e pragmaticamente controproducente. Negli Stati Uniti, la affirmative action ha rafforzato le divisioni razziali e scatenato le minoranze una contro l’altra.

Queste politiche hanno spesso avvantaggiato i benestanti a cui è capitata una crocetta su una casella razziale. Intrinsecamente paternalistica, l’affirmative action ha stigmatizzato e scoraggiato proprio le popolazioni che intendeva aiutare. (Avete visto quanto è dura entrare in WriteNow, e che standard esigenti avete dovuto soddisfare. Desiderate essere stati selezionati perché avete un talento speciale, giusto? Non per migliorare un dato statistico). Sebbene sia stata introdotta per compensare un pregiudizio storico, questa riparazione non ha una fine. Non è mai finita. Introducete l’affirmative action e sarete in trappola.

Nonostante siano ancora difese dalla maggior parte dei progressisti, le misure di affirmative action hanno incattivito non solo la cittadinanza bianca dell’America, ma anche la nostra grande comunità dell’Asia orientale, i cui figli sono stati attivamente discriminati alle ammissioni al college perché lavorano troppo sodo, eccellono troppo, fanno punteggi troppo alti nei test e sacrificano troppi piaceri del teenager medio sull’altare della carriera. Questi candidati non solo sono stati brutalmente penalizzati, ma anche insultati – visto che l’unico modo in cui i college sono riusciti a contenere i numeri delle ammissioni tra i diligenti cinesi e coreani, è dare agli asiatici orientali sistematicamente voti bassi sulla “personalità”. Così magari saranno intelligenti, ma non sono persone simpatiche né interessanti. È abbastanza razzista per voi?

Probabilmente la causa presentata di recente da candidati asiatici contro la Harvard University arriverà alla Corte suprema degli Stati Uniti, e io auguro loro di vincere. Badate, l’ultima volta che l’affirmative action è stata messa sotto processo a Washington, la questione ruotava intorno alla domanda se la University of Texas stesse applicando le quote – esattamente quello che, obietto io, sta realizzando PRH, esplicitamente o implicitamente. Globalmente, le università d’élite americane hanno accettato più o meno le stesse proporzioni di ciascuna categoria razziale per decenni, a prescindere dalle variazioni delle proporzioni nelle domande di ammissione. Ora questi istituti, di nascosto, stanno perseguendo le quote, cosa che è incostituzionale, e questo è il motivo per cui gli uffici per le ammissioni dei college sono più segreti della Cia.

Il concetto, dunque, è che non voglio vedere il Regno Uniti inoltrarsi lungo questa via ingiusta, anti-meritocratica e culturalmente distruttiva, tanto nell’educazione quanto nel commercio. Ma non è così che avete interpretato il mio commento, vero? E le vostre imputazioni per quel pezzo erano morbide in confronto all’isteria che mi dicono si possa trovare online. Il salto è olimpico: la Shriver pensa che solo i bianchi possano scrivere. La Shriver vuole proteggere l’editoria dai barbari. La Shriver pensa che la diversità si traduca inevitabilmente in libri spazzatura. La Shriver è una suprematista bianca della letteratura.

Non era difficile capirlo, quell’articolo, e non posso credere che i vostri punteggi in comprensione della lettura siano tanto bassi. Così abbiamo a che fare con qualcosa che posso chiamare solo incomprensione in mala fede. Nessuno scrittore può difendersi dall’incomprensione voluta. Al contrario, un testo implica un contratto tra gli autori e i lettori: gli autori si impegneranno a recapitare il proprio messaggio nel modo più chiaro possibile; in cambio, i lettori verranno incontro agli scrittori, e faranno uno sforzo – giacché leggere è uno sforzo, ragion per cui è un’attività sempre meno popolare in un’epoca impaziente – per digerire correttamente questo messaggio, anche se alla fine parte di tale pubblico potrebbe ancora non condividerlo.

Essendo l’indignazione la droga contemporanea preferita della sinistra, i livelli di dipendenza da essa sembrano essersi alzati al punto che non basta indignarsi per quello che c’è effettivamente; è necessario inventare storie che fanno infuriare. Ma per me è già abbastanza difficile difendere quello in cui credo davvero e che metto davvero per iscritto, senza dovermi difendere da tutte le cose in cui non credo e che non ho messo per iscritto. Temo che questo sia un esempio da manuale di un fenomeno divenuto ormai fin troppo comune: un’orda di internauti riscrive di fatto le tue idee per poterti attaccare meglio. Ma un mondo in cui tu hai detto non quello che hai detto, ma quello che altri dicono che hai detto, è un mondo in cui la gente furba smetterà di scrivere e tacerà. Dopo tutto, non sarà questo articolo a fare la differenza, o sì? È il momento della verità.

Vi dico una cosa. Ecco che cosa non mi auguro per voi: che voi tutti abbiate lunghe carriere letterarie, che superiate molte battaglie, ostacoli e delusioni lungo il percorso, e finalmente arriviate ad affermarvi come autori da non sottovalutare – solo per scoprire che quando scrivete la parola “rosso” i vostri lettori si figurano l’acquamarina, e quando scrivete la parola “carota” i vostri lettori evocano un trattore. L’esito è una cosa a metà tra il cinismo e il disorientamento. Come i lettori dello Spectator ricorderanno, uno dei miei articoli passati raccontava l’esperienza sconfortante di vedere la propria prosa così stravolta dai lettori da far perdere la fede negli attrezzi del mestiere. In un universo digitale polarizzato e ampiamente illetterato, pieno di predatori che si rimpinzano di risentimento e che sono decisi a leggere qualunque cosa vogliano leggere, le parole cessano di funzionare. Il linguaggio non serve più per comunicare, e quel che facciamo noi scrittori per vivere è peggio che insensato. Quando gli altri possono sovrascrivere il nostro lavoro in qualunque modo credano, utilizzando il nostro testo come uno schermo bianco su cui proiettare le loro presentazioni powerpoint personali, o se va bene estrapolandone brani fuori contesto per costruire i loro sgargianti collage, scrivere qualsiasi cosa, a maggior ragione immettere idee veramente controverse nel pubblico dibattito, diventa troppo pericoloso per valere il rischio.

Almeno voi allievi e io condividiamo la stessa ambizione: che in un percorso corretto, dopo una sufficiente apertura mentale, reciproca curiosità e progresso incrementale stabile, i lavori come il nostro finiscano naturalmente per essere popolati da ragazzi di una vasta gamma di estrazioni. È come arriviamo lì, a fare la differenza. Io non ci proverei con le quote. Perché la diversità non abbassa la qualità, ma le quote sì.

Augurandovi la miglior fortuna in questo lavoro dannatamente difficile.

Lionel Shriver

Foto Ansa

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