
Carceri: come buttare 100 milioni di euro per braccialetti elettronici utilissimi, ma inutilizzati
Mentre il Senato si appresta a riunirsi in seduta straordinaria per affrontare il disastro delle carceri italiane (il sistema penitenziario europeo che nelle sedi internazionali vanta il più alto tasso di condanne per violazione dei diritti umani) e Marco Pannella è da ieri sera in sciopero della fame e della sete per rilanciare la sua battaglia non violenta per l’amnistia, questa mattina, giovedì 22 settembre 2011, un gruppo di parlamentari ha finalmente rivolto un’interpellanza al governo sul tema dei braccialetti elettronici. Strumento utilizzato con successo in paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna, il braccialetto ha il pregio di non ingolfare le carceri di condannati per reati minori e, al tempo stesso, di garantire la sicurezza dei cittadini, in quanto consente il controllo a distanza del condannato 24 ore su 24 (lo stesso Strauss-Kahn durante la fase di incriminazione e rinvio a giudizio, prima di essere prosciolto da ogni accusa, ha potuto usufruire di questo strumento).
In Italia si assiste attualmente a un uso abbastanza intenso della custodia cautelare, ovvero, alla detenzione preventiva in attesa di giudizio, che può durare mesi e, in certi casi, anni, prima che l’iter di indagini e la formulazione dell’accusa siano completati e sfocino in un regolare processo. Anche per questo, cioè per evitare che tanti innocenti scontino pene detentive ingiuste, dieci anni or sono, anche in Italia venne avviata la procedura per l’adozione del braccialetto elettronico come alternativa al carcere. Alle società produttrici l’allora governo Amato ne richiese 400 esemplari e ne affidò la gestione a Telecom. Poi, nonostante il cospicuo investimento di oltre 100 milioni di euro, di quella sperimentazione non si seppe più nulla. E’ a questo riguardo che l’onorevole Pdl Gianni Mancuso ha interrogato il governo. «È una storia molto lunga – ha spiegato Mancuso – che ha inizio nell’aprile del 2001, con una fase di sperimentazione lunga e fallimentare, basata su poche unità. Poi, nel novembre del 2003, venne firmato il contratto con il gestore unico, Telecom, che doveva garantire, oltre all’installazione del personal identification device, anche l’assistenza tecnica. Questo accordo costa allo Stato circa 11 milioni di euro all’anno e, soprattutto, è ancora valido, perché andrà in scadenza alla fine del 2011, tra pochi mesi. Quindi, circa 100 milioni di euro sono stati spesi per 400 braccialetti, i quali, verrebbe da pensare siano una sorta di gioielli ma, in realtà, sono di plastica e probabilmente saranno anche obsoleti ormai».
«In tutta Europa e nel mondo civile – continua – questo strumento viene utilizzato soprattutto per i cosiddetti reati minori: Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno anche nel nostro Paese! Quindi, negli armadi del Viminale, sono rimasti almeno 390 di quei 400 braccialetti elettronici che, probabilmente, saranno da buttare. Nel frattempo, continuiamo a pagare questo contratto con Telecom, che non è stato mai rescisso, e l’azienda continua a garantire il servizio in una centrale, che io credo sia fantasma, 24 ore su 24». Per la cronaca, nel novembre del 2003, fu il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu a rinnovare a Telecom il contratto per la gestione dei “misteriosi” e, a quanto pare, costosi come pietre preziose, braccialetti elettronici.
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