Servono verità e amicizia per combattere la cancel culture

Di Rodolfo Casadei
21 Agosto 2023
Dibattito al Meeting di Rimini con Sergio Belardinelli, François-Xavier Bellamy e Joseph Weiler. «In tempi di relativismo ci vuole coraggio per continuare a mettere al centro la verità»
cancel culture meeting
Belardinelli, Bellamy e Weiler sul palco del Meeting durante l'incontro sulla cancel culture moderato da Andrea Simoncini

Se l’incontro al Meeting di Rimini sulla “cancel culture” dal titolo “Cancellare culture o costruire cultura?” è stato meno scontato del prevedibile, – tutti e tre i relatori avevano ovviamente un’opinione negativa del fenomeno – il merito va in buona parte al costituzionalista americano Joseph Weiler, che ha sparigliato le carte calate in apertura dal moderatore Andrea Simoncini e dal prof. Sergio Belardinelli.

Le provocazioni di Weiler

Il primo aveva fatto l’elenco delle cancellazioni più bislacche del mondo anglosassone, dalle statue di Cristoforo Colombo rimosse negli Usa in nome della lotta al patriarcato alla scrittrice J.K. Rowling esclusa dai meeting potteriani – lei che ha creato il personaggio di Harry Potter – per aver insistito che un uomo che si sente donna non può essere definito donna a tutti gli effetti. Il secondo aveva battezzato la “cancel culture” come parente stretta del politicamente corretto degli anni Settanta che si è salvato dalla pattumiera della storia grazie al potere dei social media, regalandoci il “passato a una dimensione” e la “sanitarizzazione della storia”.

Weiler ha lanciato due provocazioni: 1) è facile condannare la “cancel culture” quando si tratta delle statue di Colombo o di un libro intitolato Europa cristiana (scritto da lui) che Feltrinelli si rifiutò di pubblicare perché “estraneo alla sua linea editoriale”; ma quando un paesino austriaco volesse erigere una statua a uno degli ufficiali responsabili della strage di Marzabotto, non ci verrebbe voglia di abbatterla? 2) Per amore della pace sociale, qualche volta bisogna andare incontro ai sentimenti delle minoranze che hanno effettivamente sofferto per mano di alcuni personaggi. La pace sociale conta di più, qualche volta, di altre validissime considerazioni.

Ottime provocazioni, precedute – per non dare l’idea di essere ostile alla libertà di espressione – da una professione di fede nella famosa dichiarazione attribuita a Voltaire (che in realtà non l’ha mai pronunciata, mentre Weiler sembra prenderla per buona) «Non sono d’accordo con te, ma farei di tutto perché tu possa esprimere il tuo punto di vista». Peccato che le soluzioni proposte ai dilemmi posti dai casi più delicati siano irricevibili: «Se siamo costituzionalisti non possiamo non citare Carl Schmitt nelle nostre opere, ma dovremmo sempre precisare che si trattava di un nazista; le statue di George Washington vanno bene, ma bisognerebbe aggiungere una targhetta che spieghi anche che possedeva schiavi». “Pezo el tacon del buso”, direbbero in Veneto.

I due fattori da cui nasce la cancel culture

Diverso il taglio di François-Xavier Bellamy, europarlamentare e intellettuale francese, che si è pure preso la libertà di contestare il titolo dell’evento in nome dei contenuti di un suo noto libro, I diseredati («Non sono d’accordo che l’alternativa alla cancellazione delle culture sia costruire cultura: l’alternativa è trasmettere cultura, il nostro problema è la crisi della trasmissione culturale»). Secondo lui la cancel culture nasce da due fattori, uno morale e uno filosofico: la mancanza di umiltà e il relativismo che ha abolito la verità.

«Da giovane ho letto un libro che invitava a non studiare più Aristotele perché il filosofo greco aveva scritto che “alcuni uomini nascono schiavi per natura”. Io invece penso che se una grande mente come Arisotele, un pensatore che ha lasciato un’eredità che è ancora un punto di riferimento, ha potuto affermare un concetto tanto sbagliato, allora potrebbe capitare anche a me di sentirmi sicuro di un’idea totalmente sbagliata. Ciò mi spinge a essere umile: io non sono il depositario della verità, probabilmente ho bisogno di essere talvolta corretto, come auspicava per sé Socrate nel suo dialogo col sofista Gorgia. Sarebbe bello che ogni tanto, nei faccia a faccia fra politici di tendenza avversa, uno dei due dicesse: “grazie, stavo sbagliando e dialogando con lei ho capito il mio errore”. Sarebbe un modo per ritrovare il senso della vita pubblica».

«La seconda causa della cancel culture è il relativismo. Facendo l’insegnante ho scoperto che gli studenti sono convinti che la verità non esiste, perché ciascuno ha la sua. Ma se non credo all’esistenza della verità, tenderò a impedire all’altro di esprimere le sue idee diverse dalle mie, perché penserò che nessuno può convincere l’altro della bontà delle proprie posizioni, dal momento che niente è vero. Non sono veramente sicuro delle mie idee, perché sono convinto che la verità non esiste, perciò mi sento fragile e metto a tacere l’altro per non dovermi confrontare con lui. Ma la verità c’è, nessun sofismo può toglierla di mezzo; se metà di questa sala crede all’esistenza di Dio e l’altra metà non ci crede, non è possibile che tutte e due le metà siano nel giusto: qualcuno è nel giusto e qualcun altro sta sbagliando».

Cancel culture e verità

Il tema della verità ha particolarmente stimolato Belardinelli, che quasi è andato fuori tema: «La sinistra liberal americana prima ha festeggiato l’era della post-verità, poi quando ha scoperto che personaggi come Trump e Putin sanno usare molto bene i social per fare passare i loro messaggi, si è riconvertita alla necessità di stabilire la verità, si è lanciata nella lotta contro le fake news. Ma l’hanno fatto con una foga che insospettisce e che tracima nel dispotico. Da liberale dico che in una società di liberi e uguali è meglio un errore condiviso che una verità imposta con la forza».

Questo non è stato l’unico paradosso proposto dal professore, che ha pure citato Hannah Arendt: «Il contrario del vero non è il falso, ma la menzogna intenzionale. L’amicizia è meglio della giustizia, perché quando c’è amicizia non c’è bisogno della giustizia; invece quando c’è giustizia continua a esserci bisogno anche di amicizia».

«In tempi di relativismo ci vuole coraggio per continuare a mettere al centro la verità», dice Bellamy. «Il relativismo è comodo: si vive nel mondo della propria certezza senza confrontarsi con nessuno, perché sarebbe un esercizio inutile. Per replicare a qualcuno e dirgli che sbaglia ci vuole coraggio. Come diceva Charles Peguy, bisogna avere il coraggio di dire ciò che si vede, ma prima ancora il coraggio di vedere quello che si sta vedendo. Il relativismo si rifiuta di vedere la realtà». E Bellamy termina recitando a memoria in francese le famose dieci righe della parte finale di Ortodossia di G.K. Chesterton: “Spade saranno sguainate per stabilire che le foglie d’estate sono verdi, ecc.”. Poi ci si ricorda che nei suoi Diseredati l’ex insegnante tesse l’elogio delle poesie imparate a memoria, e allora si capisce tutto.

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