
Caccia all’intruso
In un recente faccia a faccia con la collega Carla Benedetti, il critico Alfonso Berardinelli rispondeva così a chi lo interrogava sul perché in Italia non esistono più gerarchie artistiche in letteratura: «Per indifferenza. Per quieto vivere. Perché ci si fa odiare. Gli scrittori contemporanei sono una famiglia. Solo un intruso può giudicarli» (Libero, 5 dicembre 2007, a cura di Massimiliano Parente). Evviva la sincerità. Una franchezza secca che invece tutto sommato manca nel pur interessante volume a quattro mani dedicato dalla coppia Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli alla critica di casa nostra (Dizionario della critica militante, Bompiani). Il volume, che mette a fuoco i decenni Ottanta e Novanta, è zeppo di stimoli, di annotazioni affabili quanto giuste, ma nell’insieme la partitura complessiva lascia un tantinello smarriti.
Sul primo decennio preso in esame, a salire in cattedra è l’accademico Leonelli, docente di Italianistica a Roma Tre e collaboratore della Repubblica. Punto d’avvio e di snodo, il balbettio degli anni Settanta quando strutturalismo, semiotica e presunta critica scientifica mostravano tutte le pecche, a cominciare dal cosiddetto “grado zero” della scrittura creativa, e contemporaneamente l’impegno sessantottino in favore di una letteratura “ribaltonista” vera cadeva nel ridicolo quando non nell’afasia. In questa terra di nessuno, qualche voce isolata, qualche sussurro si levava. Erano alcuni sopravvissuti alla burrasca scientistico-ideologica, erano figure appartate che, malgrado i molti bailamme e gli altrettanti colpi di mare, avevano perseverato nel lavorare sui testi con umiltà e piglio personale.
Di queste isole nel deserto, Leonelli parla con affabile entusiasmo, senza, peraltro, dire neppure troppo male del resto della compagnia: gli ex fan dello scientismo, gli innamorati del “tutto è politica”. Così si tengono a braccetto nella trattazione, magari un po’ caracollando, un Torquemada inquieto come Franco Fortini e uno strutturalista nervoso come Remo Cesarani, messi più o meno nello stesso mazzo con degli eleganti signori, oramai a fine carriera, quali il sulfureo Mario Praz e il soffice francesista Giovanni Macchia.
Accanto a queste coppie contraddittorie (e spesso sull’orlo di una crisi di nervi) scivolano beate e amare talune perle. Ovvero quei critici la cui consapevolezza professionale è sempre stata un gradino più su del resto del gruppo. Ovvero quegli addetti ai lavori che per qualche magico afflato si sono tenuti saggiamente in disparte dal grande bordello datato anni Sessanta e Settanta, riuscendo così a salvare vocazione e capacità di lettura. Nomi: Geno Pampaloni, Cesare Garboli, a cui aggiungere una new entry, il già citato Berardinelli.
Una triade abbastanza bislacca di numi tutelari. Dove si mettono insieme percorsi e suggestioni assai disparate. Un conservatore, Pampaloni, che amava definirsi cronista letterario o, alla maniera di Pietro Pancrazi, critico giornaliero, dotato di «incredibile sicurezza» di giudizio. Uno che, secondo Leonelli (ma non è il solo), non sbaglia mai. Scrive saggi, in realtà quasi tutti pezzi pubblicati su quotidiani, che «sembrano libri miniaturizzati. Non manca nulla, nessun dettaglio è trascurato: è una suprema capacità di dire, di prospettare molte cose in poche parole, di sintetizzare senza cadere mai nel generico». Totalmente altro Garboli, una specie di geniale mago della scrittura critica. Un inclassificabile, che giocava a rimpiattino con i suoi straordinari talenti, e che amava più nascondersi che dire apertamente. Farne un capofila è un’impresa piuttosto ardua quando non disorientante. Più capogruppo è invece Berardinelli. Ma anche per il più giovane critico romano, eroe pure della seconda parte del libro firmata da La Porta, il ruolo di deus ex machina non riesce proprio naturale.
Il legame smarrito con la tradizione
Alfonso Berardinelli è figura altamente sincopata. Dal percorso complesso, piuttosto saggista che critico nel senso stretto. Viaggiatore abbastanza anomalo delle patrie lettere, spirito caustico (bersagli abituali il postmoderno, Umberto Eco eccetera) è soprattutto un ottimo guastatore, quanto al resto le sue proposte suonano piuttosto eclettiche.
Preparato il canovaccio da Leonelli, entra finalmente in campo La Porta e subito scopriamo che a metà del decennio di sua competenza la critica è uscita dalla precedente apatia e ha ripreso a marciare a pieno regime. «Nel corso del decennio, infatti, accanto a un revival di filologia e storiografia», scrive La Porta, «una nuova critica sembra consolidarsi e rendere piena coscienza di sé, intrecciando un dialogo più o meno esplicito con alcuni maestri non soltanto italiani». È il dibattito sulla funzione del gusto, la questione dei legami rescissi con la tradizione, i problemi del canone e così via. Busillis grossi e gravi, da navigatori duttili e spericolati. La Porta dice la sua. Sintetizza, propone suggestioni. Soprattutto elenca. I suoi preferiti sono all’incirca gli stessi del coautore e semmai il suo discorso si differenzia da quello del collega per un sovrappiù di nomi e di testi.
Alla fin fine, la mappa della “critica militante” è disegnata, ma le soluzioni rimangono spesso sullo sfondo.
Il camaleonte del Corsera
Più vigore meno ammuina in un altro saggio sullo stato della critica da poco in libreria. Il testo in questione, La ragione in contumacia (Donzelli), è firmato da Massimo Onofri e ha dalla sua un piglio e un vigore che spesso manca in La Porta e Leonelli. È decisamente meno sincretista, e abbastanza allergico al “volemose bene”. Tira bordate qui e là, alza volentieri il tono della voce. E manda al tappeto alcuni mostri sacri e taluni coetanei in carriera. Sulla loro capacità di dire no a certi cattivi testi è drastico: «Carlo Bo, per esempio, paradossalmente era la negazione della critica militante. Un po’ come oggi Emanuele Trevi, che ha certamente una bella penna ma è troppo camaleontico, trova preoccupante scrivere di qualcosa che non gli piace.» (Corriere della Sera, 28 novembre 2007). Onofri ha anche in gran dispetto la piacevolezza e non disdegna, se è il caso e vale la pena, soffrire. La sua è una proposta forte, dal retroterra solido (Benedetto Croce, Giuseppe Antonio Borgese, Leonardo Sciascia, la filosofia kantiana eccetera) e tuttavia non del tutto immune da quell’aria di famiglia di cui parlava all’inizio l’ottimo Berardinelli. Pure nelle osservazioni al calor bianco di Onofri, cioè, si avverte qualcosa di eluso o rispetto a cui non si vuole tirare le inevitabili conseguenze. Un vulnus da consorteria, una mancanza di radicalità nel punto di vista. D’altronde, si diceva, ha il titolo per giudicare gli scrittori italiani solo “un intruso” o giù di lì.
Beppe Benvenuto
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